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Storie profane raccontate sui muri

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Storie profane raccontate sui muri

Come immaginava il Medioevo il bacio famoso di Lancillotto e Ginevra, quello tra il «disiato riso» e il «cotanto amante» che a sua volta spinge Paolo, «tutto tremante», a baciare la bocca di Francesca? Basta andare nelle Sale d’Arte del Museo Civico di Alessandria, in Piemonte, e contemplare gli affreschi che, distaccati dalla Torre di Andreino a Frugarolo, raccontano le vicende del cavaliere della Tavola Rotonda, Lancillotto. Sono quindici (forse originariamente sedici) scene tardo-trecentesche, nelle quali sono mostrati gli antefatti della storia, poi Lancillotto e Galehot, le sfide e i duelli di Lancillotto, Lancillotto che libera Artù: legate, tutte, al Lancelot du Lac, il grande romanzo della «Vulgata Arturiana» del Duecento dall’intreccio, come diceva Eugene Vinaver, «a merletto». Eredi del canto V dell’Inferno dantesco e di quelle che Lorenzo Renzi ha chiamato «le conseguenze di un bacio», noi andiamo subito a cercare la scena celeberrima. E immediatamente la troviamo: casta ma palpitante, con Lancillotto e Ginevra piegati l’uno verso l’altra, le due bocche sul punto di sfiorarsi. A scanso di equivoci, il pittore di Frugarolo mostra poi un’altra scena nella quale da una parte Lancillotto e Ginevra, dall’altra Galehot e la Dama di Malehaut giacciono a letto seminudi: segno che, in conseguenza appunto del bacio, hanno consumato il loro amore.

Di queste scene eminentemente profane è piena l’Europa intera (ancora adesso, quando la maggior parte di esse è scomparsa agli accidenti del tempo e al mutare dei gusti). Lo dimostra con dovizia di particolari e con sapienza dispositiva del tutto speciale il libro di Marisa Meneghetti, Storie al muro. Che ci fa percorrere un viaggio emozionante attraverso castelli, manoscritti, torri, palazzi e chiese. Se il bacio di Ginevra e Lancillotto è al centro degli affreschi di Frugarolo, infatti, l’incontro tra i due si ritrova, camuffato in incontro tra un abate cistercense e un signore, anche nel castello di Siedlęcin, in Polonia. E Artù, i suoi cavalieri, le loro imprese – quelle che Dante chiama «le ambage bellissime del re Artù» – campeggiano anche sul pavimento musivo di Pantaleone nella Cattedrale di Otranto, sulla fascia interna della lunetta della Porta dei Leoni nella Basilica di San Nicola a Bari, e nel glorioso archivolto della Porta della Pescheria nella Cattedrale di Modena. «Oh gran bontà de’ cavalieri antiqui!», verrebbe fatto di esclamare, togliendo l’ironia, con l’Ariosto.

I signori e gli ecclesiastici d’Europa amano le storie profane. In un’epoca in cui i libri sono costosissimi e pochi sono in grado di leggerli, le storie al muro sono in grado di dare diletto e istruzione a tutti. Si può leggere ciascuna di esse, come voleva l’ultimo Auerbach, come un «Ansatzpunkt», cioè come punto di partenza, «o anzi un “appiglio”, circoscritto e ben individuabile, che consente però di ricostruire e comprendere il senso complessivo dell’universo culturale, storicamente determinato, cui l’opera stessa rinvia e nel quale si inserisce», oppure la si può vedere come un «aneddoto» del Nuovo Storicismo. Ma il fatto è che ciascuna testimonia la penetrazione profonda della storia, o della Storia, alla quale si ispira, e talvolta rivela l’ideologia e il senso che a quella riscrittura figurativa sovrintendono.

Per esempio, nella Cappella di Santa Radegonda a Chinon, in Francia, un affresco del XII secolo rappresenta cinque personaggi a cavallo. È la cavalcata dei Plantageneti, la famiglia (francese) che regnava sull’Inghilterra e su parte della Francia e che a Chinon aveva una delle sue dimore. Il problema è capire chi siano i personaggi raffigurati e a cosa la rappresentazione stessa rimandi. Marisa Meneghetti imposta qui il suo racconto come un giallo, passando in rassegna le interpretazioni precedenti e suggerendo poi una sua, sottilissima, spiegazione. Semplifico. C’è chi ha riconosciuto nella cavalcata Enrico II – che morì a Chinon – e i suoi quattro figli maschi (Enrico il Giovane, Goffredo, Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senzaterra, questi ultimi due a loro volta re). C’è però chi identifica uno dei personaggi con Eleonora d’Aquitania, moglie di Enrico II e donna tra le più intelligenti, colte, potenti e odiate di tutto il Medioevo. Sarebbe stata proprio lei a far rappresentare nell’affresco, dopo la morte del marito, «il momento in cui, accompagnata dalla figlia Jeanne e preceduta dal marito, era stata forzata ad accomiatarsi dallo stesso Riccardo e dall’altro figlio, Enrico». Un episodio drammatico, che vede Eleonora punita per l’appoggio da lei dato alla rivolta dei primi tre figli contro Enrico II. Ma l’affresco contiene anche un elemento enigmatico: uno dei cavalieri porge a un personaggio coronato che lo precede un uccello da preda, un falco o uno sparviero. Potrebbe simboleggiare una devoluzione di potere. Oppure – ecco la sorpresa e il secondo livello di lettura – alludere «al momento in cui, stando alla leggenda biografica di Bernart de Ventadorn – il celebre trovatore limosino attivo nella seconda metà del XII secolo – il re Enrico d’Inghilterra avrebbe condotto nel suo reame la neosposa Eleonora, strappandola all’innamorato poeta». O comunque contenere un ricordo della relazione amorosa tra la regina e il trovatore, quale canonizzato nella Vida di Bernart. «In questo caso», conclude Marisa Meneghetti, «benché non sia lecito parlare di rappresentazione consapevole e voluta di temi lirici, dobbiamo constatare di trovarci davanti a una narrazione ibrida, nata dalla surdeterminazione in chiave letteraria di un soggetto derivato da un preciso avvenimento storico. Ed è, anzi, proprio la poesia che sembra recuperare spazio sulla scena, mostrandosi meglio attrezzata della realtà dei fatti a suggerire, a chi guarda,che le vicende rappresentate possono avere un significato più ampio, ma anche più universale di quello che appare in superficie».

Pretendere l’esaustività da un libro come questo sarebbe assurdo. Piuttosto, si devono apprezzare la scelta dei campioni e l’esaustività del sondaggio. Penso al bel capitolo sui temi epici nell’arte romanica e gotica di tutta Europa che ha per titolo un altro verso di Dante, «poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo … mia vista»: Rolando e Olivieri, tanto per dirne una, sono raffigurati in bassorilievo persino nel monastero rupestre di Géghard, in Armenia, e il primo (probabilmente) nel protiro del Duomo di Verona. Soprattutto, penso a quel tour de force davvero fuori dell’ordinario che è il penultimo capitolo, dedicato alle «Allegorie dipinte nell’autunno del Medioevo». Tra Maestà di Simone Martini e Buon Governo di Lorenzetti, tra il Palazzo Trinci di Foligno e il Palazzo del Popolo di San Gimignano, regnano qui sovrane le Età dell’Uomo, e i Nove Prodi e le Nove Eroine, e la Fontana della Giovinezza, che riempiono di splendore la Sala Baronale del Castello della Manta, presso Cuneo. Ecco, la camera si fa codice e recueil, manoscritto e miscellanea governata da un programma. Mentre il libro di Marisa Meneghetti diviene, come avrebbero detto i nostri antenati medievali, speculum istoriale: uno dei libri più ricchi e affascinanti che la filologia attenta, aperta e inventiva ci abbia regalato negli ultimi trent’anni.

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