Cultura

La Rosa planetaria dei traduttori

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UMBERTO ECO

La Rosa planetaria dei traduttori

La cosa più immediata che mi viene in mente di Umberto Eco è il senso di familiarità, di consonanza che mi suscitavano, ancora prima di incontrarlo, i suoi scritti sparsi, che mi capitava di leggere in riviste come «Il cavallo di Troia», «Alfabeta», oltre che su «L’Espresso», «Il manifesto» e, a mano a mano, sul «Corriere della sera» e «Repubblica». Voglio dire che quando le nostre strade si sono incrociate, alla Bompiani, fin dal primo momento la sensazione era di conoscerlo bene, non solo come scrittore. Forse non è stato un caso se il nostro rapporto autore-editore è durato trentacinque anni, integrato, arricchito di esperienze che hanno la loro base nell’amicizia, nella visione delle cose e nel gusto del vivere. Quando arrivo io ha appena pubblicato Il nome della rosa e vinto lo Strega e intanto stavano uscendo le edizioni straniere in tutto il mondo, accompagnate da una clamorosa risonanza critica, perché se come narratore Eco era un esordiente (circa quarantenne), poteva però contare sull’attenzione, per non dire la curiosità, del mondo accademico internazionale, presso il quale aveva accumulato un patrimonio di stima per la sua attività di saggista e di visiting professor.

La traduzione del Nome della rosa è stata per la maggior parte dei suoi traduttori il compimento più qualificante, e gratificante, della loro carriera. William Weaver, l’americano, aveva intitolato alla Rosa la dependence della sua casetta nella campagna toscana, che aveva potuto costruire con i proventi, in royalty, della sua traduzione. S’era formata spontaneamente una comunità dei traduttori del Nome della rosa, riunitasi anche a un convegno presso la Scuola di Trieste. Umberto li incontrava ad uno ad uno, non prima di avere fornito loro un fascicolo di una cinquantina di pagine, degno di pubblicazione per il garbo misto alla sapienza editoriale, con il quale indicava il senso di alcuni passaggi più impervi per uno straniero, dettagli sul contesto storico-culturale, alternative lessicali ecc. Naturalmente il rapporto era facilitato con quelli di lingue da lui conosciute, ma intratteneva rapporti non meno intensi con la traduttrice russa, con quello giapponese e l’ungherese, all’insegna della sua nota teoria della «traduzione come mediazione». Era però disarmato, e noi con lui, riguardo alle numerose edizioni pirata nei paesi che non aderivano alla Convenzione di Ginevra, come quando ne arrivò una in lingua araba con il titolo Sesso in convento. L’ubriacatura per la Rosa durò a lungo, propiziata anche dal successo del film che ne trasse Jean-Jacques Annaud, tant’è che gli ci vollero otto anni per sfornare un altro romanzo, Il pendolo di Foucault, quello da lui più amato e forse il suo capolavoro. Il romanziere poi sentiva il bisogno, e buon per i lettori, di mettere in luce qualcosa in connessione con lo scavo dello studioso e la speculazione del filosofo: come le Postille al Nome della rosa e I limiti dell’interpretazione, quale supporto teorico del Pendolo.

Nel pensare alla sua vita, non breve e felice, ricchissima, mi sono prima soffermato sul mio esordio accanto a lui, ma il proseguire imporrebbe scelte di percorso che la tirannia dello spazio può rendere inadeguate. Più facile ricordare momenti diversi della sua attività segnati dal comune denominatore dell’ironia, un’ironia mai gratuita, accesa talvolta di necessità drammaturgica o didascalica, secondo si trattasse di amici o studenti. Studenti lo ridiventavano talvolta anche gli amici per il suo vezzo, un po’ crudele, di metterci alla prova con i test di cultura generale nati per selezionare gli allievi del suo master. O quando una passeggiata con lui a Parigi significava ripercorrere i luoghi e le emozioni della grande narrativa popolare ottocentesca francese. Prima di diventare professore e dopo l’esperienza di programmista alla Rai, ha lavorato con Valentino Bompiani, redigendo anche un manualetto a uso interno di norme redazionali (tutt’ora in uso), coevo del suo fortunato best-seller internazionale Come si fa una tesi di laurea: era il terrore dei redattori, perché implacabilmente scovava refusi, errori di traduzione e altro non appena sfogliava un libro fresco di stampa.

L’anno scorso l’Università di Torino gli ha decretato una Laurea honoris causa, l’ennesima; gli traspariva l’emozione di un giovanotto che tornava nel luogo dove si era laureato. Quest’anno ne aveva in programma altre due: si è dovuto fermare a quota 41. Montecerignone, il buon ritiro, non era più ormai solo il luogo delle vacanze. Qui venivano a omaggiarlo i suoi editori stranieri, arrivavano i traduttori per gli ultimi ritocchi, le troupes di giornalisti e fotografi per le interviste in occasione del lancio di un libro. Qui ho scoperto, da residente, la formidabile capacità di lavoro di Umberto. Ore e ore al computer durante il giorno, interrotto solo da momenti rituali di socialità, come i pasti e una nuotata in piscina d’estate. Dopo cena e magari anche un film di videoteca, quando tutti già assopiti si ritiravano nelle loro stanze, Umberto si rimetteva al lavoro, nell’impellenza di finire un capitolo, di preparare una conferenza o un pezzo per il giornale.

Ultimamente stava lavorando a un’opera a cui teneva molto e temo ci abbia lasciati con il rammarico di non averla potuta compiere. Era stato accolto nella Library of Living Philosophers che prevede un corposo volume composto da un’autobiografia filosofica, il contributo di una ventina di studiosi di vari paesi in dialogo critico con l’autore e le sue risposte ad ognuno. Umberto stava attendendo alle risposte e prevedeva di poter ultimare il lavoro entro l’anno.

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