Cultura

Pensatore prima di tutto

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Pensatore prima di tutto

  • –Diego Marconi

UmbertoEco era l’intellettuale italiano più conosciuto nel mondo, e quindi era anche il filosofo italiano più conosciuto nel mondo. Eco, infatti, era (anche) un filosofo; non solo per formazione – si era laureato a Torino con Luigi Pareyson, tesi di laurea sull’estetica di Tommaso d’Aquino - e nemmeno soltanto perché, anche in seguito, avrebbe sempre privilegiato, in sé e negli altri, quella formazione (Eco era a volte insofferente dei “puri” filosofi, ma in fondo diffidava sempre un po’ degli intellettuali che non provenivano dalla filosofia). Ma anche per l’intenzione di fondo che, negli anni, avrebbe continuato a guidare la sua ricerca teorica. Come molti sanno, Eco era professore di Semiotica, ed era anzi il padre della semiotica italiana, oggi orfana del suo fondatore e principale ispiratore. Il suo Trattato di semiotica generale (1975), tradotto in molte lingue, i saggi scritti per l’Enciclopedia Einaudi e poi raccolti in Semiotica e filosofia del linguaggio (1984) e le innumerevoli analisi semiotiche di testi, opere e situazioni comunicative sono stati il punto di riferimento per una vasta comunità internazionale.

Ma per Eco la semiotica non era altro dalla filosofia; al contrario, era la forma che la filosofia non poteva non assumere se voleva parlare alla e della contemporaneità, così come l’avevano fatto a suo tempo, in forme e con strumenti diversissimi, molti grandi filosofi da Aristotele a Hegel. La filosofia che interessava a Eco non era la costruzione di monumentali edifici metafisici (su cui esercitava spesso la sua fulminante ironia), e nemmeno l’attività di problem solving caratteristica della tradizione analitica (per cui aveva comunque non poca curiosità e un certo riluttante rispetto, come si ha per un lavoro ben fatto ma di dubbia utilità). Quello che gli interessava, della filosofia, era la sua capacità di smontare i meccanismi spesso nascosti o fraintesi di cui è fatta la vita quotidiana degli esseri umani: gli interessava, cioè, la filosofia come teoria e analisi della cultura. Dove per “cultura” non si intendono soltanto opere letterarie e artistiche, ma anche prodotti considerati “bassi”, dai fumetti ai film di consumo agli show televisivi; e inoltre oggetti di uso quotidiano, situazioni comunicative ordinarie, modi di dire, barzellette (di cui Eco era un sublime raccontatore). Per cui passava con assoluta nonchalance dalla pubblicità dei detersivi a oscuri testi medievali o rinascimentali noti solo agli eruditi, da Charlie Brown a George Dalgarno e Athanasius Kircher; e poteva sembrare una forma di snobismo o di frivolezza, ma era invece del tutto coerente con il suo progetto filosofico.

Abbastanza presto, Eco si convinse che la tradizione semiotica avesse approntato gli strumenti concettuali migliori per dare esecuzione a questo progetto. Il suo autore preferito era Peirce, forse perché più filosofo (e anzi, grande filosofo), ma aveva imparato anche da Saussure, da Hjelmslev e da altri. Su questa scelta si possono avere dei dubbi; ma comunque, anche attraverso l’analisi semiotica Eco introdusse nell’Italia ancora alquanto provinciale degli anni ’60 autori, fenomeni culturali e discorsi per noi nuovi, tenendo fra l’altro a battesimo (insieme a Vittorini e Del Buono) quel formidabile canale di sprovincializzazione che fu, per almeno un decennio, la rivista di fumetti «Linus». E in ogni caso, la semiotica non fu la sua ultima parola filosofica. Negli anni ’80, il suo naso finissimo – quello che aveva fatto di lui un grande consulente editoriale - fiutò quella che oggi i manuali chiamano “svolta cognitiva”: l’evoluzione della psicologia cognitiva e la sua associazione con le ricerche di intelligenza artificiale stavano dando vita a un programma di ricerca (poi chiamato “scienza cognitiva”) in cui alle domande della forma «Che cos’è X?» si sostituivano domande della forma «In che cosa consiste, o potrebbe consistere, fare X?». Quindi, ad esempio, non «Che cos’è la scelta?» ma «In che cosa consiste, per una mente, prendere una decisione?»; non «Che cos’è il significato?», ma «In che cosa consiste la comprensione di una frase?»; e così via. Eco era a quel punto un uomo famoso, essendoci già stato il colossale (e meritatissimo) successo mondiale del Nome della rosa; questo gli consentì di tradurre il suo interesse per questi temi nell’istituzione del Centro di studi semiotici e cognitivi dell’Università di San Marino (1988). Per parecchi anni, anche grazie alla collaborazione determinante di Patrizia Violi e Paolo Leonardi, il Centro di San Marino fu uno straordinario incubatore di filosofia e scienza cognitiva: i maggiori filosofi e scienziati cognitivi del mondo parteciparono ai suoi convegni, e molti giovani italiani (e non solo italiani) interessati a queste tematiche fruirono di borse di studio per assistervi.

Personalmente, Eco ne ricavò il suo ritorno alla filosofia in senso stretto. Col libro Kant e l’ornitorinco (1997) prese le distanze dal clima postmodernista di cui era stato partecipe (peraltro senza gli eccessi recentemente stigmatizzati da Maurizio Ferraris) e in fondo dalla stessa semiotica, aderendo sostanzialmente al paradigma cognitivista e ponendo tra l’altro, con notevole preveggenza, la questione del realismo.

L’Ornitorinco fu da alcuni aspramente criticato, guardando agli alberi e perdendo di vista la foresta; io invece pensai, e continuo a pensare, che, al di là dei dettagli, fosse un notevole atto di coraggio filosofico (e non solo). Una celebrità mondiale si dimostrava capace di ripudiare alcuni dei dogmi a cui era legata la sua fama e di prendere una strada nuova: non con arroganza, ma, al contrario, con umiltà.

Per la maggior parte dei suoi lettori, Eco è stato anzitutto un romanziere a cui si perdonava di essere anche un professore. Tuttavia, una parte del suo programma filosofico è stata svolta proprio attraverso alcuni dei suoi romanzi, specialmente Il nome della rosa e Il pendolo di Foucault. È una parte diversa da quella di cui ho parlato finora, perché riguarda la filosofia morale e politica. In questi romanzi, Eco ha argomentato per il valore della tolleranza mostrando le conseguenze distruttive dell’intolleranza, e ha argomentato a favore del valore della semplicità, esplicitezza e chiarezza mettendo in scena la conseguenze devastanti del culto del segreto, dell’oscurità e dell’implicito. Moral prädigen ist schwer, moral begründen unmöglich, diceva Wittgenstein correggendo Schopenhauer: la predicazione morale è difficile, la fondazione della morale impossibile. Eco doveva essere d’accordo, tant’è vero che ha presentato la sua filosofia morale nella forma della predicazione, e la predicazione nella forma della narrazione. C’è riuscito molto bene anche se era difficile, come dice Wittgenstein. Non so se Eco sia stato un Grande Filosofo: forse non nel senso stretto e tecnico della parola. Ma se esistesse un premio Nobel per l’Umanità, avrebbe dovuto vincerlo.

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