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La vendetta di Medea dentro un bunker

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teatro

La vendetta di Medea dentro un bunker

Contrariamente alla diffusa tendenza di riprendere la Medea di Euripide per portarla verso una cronaca attuale di madri assassine, Gabriele Lavia spinge la barbarica eroina verso la realtà antica che le appartiene. Pur vestendola di abiti d'oggi - e con lei tutti i personaggi - e collocandola nel freddo spazio di una casa metallica rugginosa, quasi un bunker (metafora del buio in cui si è raggrumato il mondo di Medea?) con pareti composte di blocchi squadrati (che ricordano i massi dello scultore Richard Serra) che sono anche reggia, stanze, bagno, ara sacrificale, il regista le connota una classicità che la rende contemporanea operando un abbassamento della tragedia a dramma borghese. L'eroina qui vive la sua posizione di donna che ha tradito la patria e la famiglia, che per amore ha lasciato tutto e che per passione avvelena barbaramente la rivale, massacra i propri figli, si vendica di Giasone fedifrago, eroe senza eroismo.

Tutto è portato ad un livello umano. Nel dialogo che contrappone Medea a Giasone assistiamo allo scontro tra due etiche divergenti, tra una passionalità che rifiuta ogni mediazione e l'opportunismo cinico di un uomo che, lasciato da parte ogni ideale, vuole solo conquistare il potere sposando Creusa la figlia del re di Corinto,e assicurarsi una vita agiata. Non viene molto in evidenza però, in questo conflitto, quel mettere a confronto non solo due culture, ma due epoche dell'umanità: la fase primitiva, matriarcale, tellurica incarnata da Medea, e la razionalità e lo stato di diritto della civiltà greca.

La maga della Colchide, vilipesa da un amante mascalzone e da un re arrogante, Creonte, dei quali avrà atroce vendetta, non fugge sul Carro del dio Sole, ma si allontana stringendo a sé i corpi dei figli sottraendoli all'abbraccio del padre e, lorda della colpa dell'atroce misfatto, si spoglia e si lava sotto una doccia quale azione purificatrice. Tutti scompaiono e per alcuni attimi rimane illuminata la scena vuota mentre risuona il clangore metallico di una musica. Poi il buio.

Vestita di un abito nero, tormentando la coltre che la ricopre, che toglie e rimette; rannicchiata spesso con le spalle alla parete che percuote nella rabbia; con impeti furiosi e poi avveduti, Francesca Di Martino, pur con qualche eccesso di espressività vocale e gestuale è una Medea vendicativa, lucida e tenace, dura e energica, contrastata dal Giasone ragionevole poi piegato dalla pena, di Daniele Pecci. In una regia accortamente scevra di orpelli e ben capace di essenzialità figurativa e di sagacia narrativa, rimane la perplessità di un coro così numeroso – ben tredici donne simili a hostess – del quale non capiamo il motivo per cui è stato vestito di eleganti abitini biancocelesti e con cappello. Cappello, ma scuro, indossato anche dai protagonisti principali.

“Medea” di Euripide, traduzione Maria Grazia Ciani, adattamento e regia Gabriele Lavia, con Federica Di Martino, Daniele Pecci, Mario Pietramala, Angiola Baggi, Giorgio Crisafi, Francesco Sferrazza Papa, scenografia Alessandro Camera, costumi Emanuele Zero, musiche Giordano Corapi, luci Michelangelo Vitullo. Produzione Teatro Stabile di Napoli – Fondazione Teatro della Toscana. Al Mercadante di Napoli, fino al 28 febbraio; al Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci (Fi), dall'1 al 6 marzo.

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