Cultura

Il talento italiano a New York e il sistema da costruire in casa

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Il talento italiano a New York e il sistema da costruire in casa

Sono stato a New York qualche giorno per presentare in una serie di appuntamenti il nostro ItalyEurope24 , il primo quotidiano digitale italiano interamente in lingua inglese che si propone di raccontare il nostro Paese per quello che è e di offrire un punto di vista non usuale sull’Europa, e mi sono rimaste impresse alcune cose apparentemente minori come il silenzio del New York Stock Exchange , dove il rumore delle grida ha lasciato il posto al dominio dei computer e degli algoritmi, e la stanzetta nel “General Motors Building” di Estée Lauder, la regina dei cosmetici morta più di dieci anni fa, dove tutti i giorni si cambiano i fiori, nulla è stato toccato, la preziosa tappezzeria cinese di carta, l’angolo delle foto di famiglia, i bigliettini di ringraziamento di Grace Kelly e quelli tutti in fila di Richard Nixon, Ronald Reagan e Bush padre.

Ho sentito come un orgoglio personale che a guidare il colosso americano dei cosmetici e a quintuplicarne in pochi anni la capitalizzazione di Borsa sia Fabrizio Freda, nato a Napoli e laureatosi nella sua città all’Università Federico II, lo guardo mentre mi accompagna nel giro degli uffici, al quarantesimo piano, in un colpo d’occhio mozzafiato su Central Park e mi passano davanti tante cose: ritorno con la mente ai miei primi anni di giornalismo che coincidono con quelli suoi dell’Università, rifletto sulla nostra scuola e sui tanti talenti che abbiamo formato e “regalato” al mondo, mi resta dentro la soddisfazione che sia un manager napoletano ad avere salvato e rilanciato una grande azienda familiare americana e ad essere cooptato nel board di BlackRock, la più grande società di investimenti al mondo.

Quando ci impegniamo siamo davvero bravi e dovremmo saperlo fare in casa e fuori, ancora di più, dovremmo saperlo fare come sistema, come imprese, come cittadini, in una parola come Paese, punendo e isolando chi sbaglia senza alcuna indulgenza, ma recuperando allo stesso tempo le ragioni di fondo di un’operosità che ci appartengono e l’orgoglio di rivendicarle. Soprattutto, di queste giornate newyorkesi, mi ha colpito una frase, inequivoca e ripetuta, di Richard Haass, durante la cena al Council on Foreign Relations , che riguarda non noi ma loro: «Per la prima volta gli americani temono che il futuro dei loro figli sia meno prospero di quello delle generazioni che li hanno preceduti». Non me lo aspettavo, da un popolo che ha sempre dimostrato di guardare avanti, e da un pezzo di mondo che ha saputo rialzare la testa e riconquistare la crescita. Forse, prendere coscienza della gravità e della profondità di una crisi globale che ha superato quella degli anni Trenta, aiuta a capire, se non altro a evitare semplicismi e luoghi comuni.

Sono rientrato a Milano mercoledì e ho preso parte al pranzo di inaugurazione della settimana della Moda a Palazzo Reale, nella splendida Sala delle Cariatidi. C’erano tutti i big della moda e il sindaco Giuliano Pisapia, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi – è la prima volta per un capo di governo – e Carlo Calenda, rappresentante permanente dell’Italia a Bruxelles. Intorno al tavolo d’onore, come abbiamo documentato nei giorni scorsi sul nostro giornale, c’erano le donne e gli uomini che custodiscono il 41% della produzione europea del lusso, ma a guardarli in faccia e tutti insieme ti accorgevi che intorno a quel tavolo c’era qualcosa di più, il segno di un unicum della manifattura che appartiene al Made in Italy e che nessuno è mai riuscito a scalfire nei suoi primati globali di manualità, di qualità industriale e di indotto artigianale diffuso. Eravamo a Milano, ma tutte le “capitali italiane della moda” erano rappresentate, sentivi nelle parole di molti l’apprezzamento per il nuovo ruolo svolto dall’Ice a sostegno dell’intera filiera, e mi è sembrato di cogliere il segno (vero) di uno sforzo intelligente di cominciare a fare sistema, lo stesso che ha portato il Salone del mobile a fare di Milano la capitale mondiale dell’arredo-design e ha riacceso i motori della creatività tornando ad essere punto di attrazione per tutto il mondo. Lo stesso, identico, segno che dovrà animare una sfida ancora più complessa e importante, quella di trasformare l’area dell’Expo nel primo centro di ricerca mondiale sulla tecnologia, la scienza e la qualità della vita mettendo insieme capitali a lungo termine e intelligenze, l’Istituto italiano di tecnologia di Genova e le Università di Milano, senza tornare a dividersi in beghe più o meno localistiche di ogni tipo, pensando e facendo in grande.

Qualche mese fa, in occasione della prima giornata del «Viaggio nell’Italia che innova» a Bologna, seconda tappa venerdì prossimo a Bari, ho scritto di un mio sogno personale: un robot di nome Pippo, deve tutto all’uomo e, grazie all’intelligenza artificiale di cui dispone, può partire da solo dalla Sicilia, attraversa lo Stretto, risale la penisola, arriva a Malpensa e prende un volo per New York, fa tutto da solo Pippo, chiude il suo viaggio a Manhattan, e se la ride in mezzo ai grattacieli nell’ora blu. Mi piacerebbe tanto che il robot Pippo nascesse e si realizzasse qui a Milano.

roberto.napoletano@ilsole24ore.com

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