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L’arte di dire sì alla vita

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scienza e filosofia

L’arte di dire sì alla vita

Diceva Karl Kraus che «l’aforisma non coincide mai con la verità; o è una mezza verità o una verità e mezzo». Gli aforismi che Nietzsche presenta ne La gaia scienza (prima edizione 1882, seconda, con importanti aggiunte, del 1887), a parte quelli invischiati in polemiche contingenti, sono per lo più delle verità e mezzo.

La nuova traduzione di Carlo Gentili innova rispetto a quelle già eccellenti di Ferruccio Masini (Adelphi 1965) e di Sossio Giametta (Rizzoli 2000) ed è, soprattutto, dotata di un’ampia introduzione e di un capillare e filologicamente rigoroso commento ai testi. Si avvale, inoltre, di alcuni accorgimenti grafici – come il maggior rispetto della punteggiatura e dei trattini di sospensione – che permettono di separare meglio le citazioni dalle parole di Nietzsche.

In questa «opera laboratorio», che contiene in sé altre opere fondamentali (come Zarathustra e Al di là del bene e del male), i componimenti poetici «Scherzo, malizia e vendetta» e le Canzoni del principe Vogelfrei aprono e chiudono le raccolte di aforismi. Alla maniera dei troubadours provenzali da lui ammirati – lo si vede già dal titolo del libro e dalla scintillante poesia finale AlMistral – la gioia, e non la seriosità, deve per Nietzsche caratterizzare la scienza: «Libera – sia chiamata l’arte nostra / Gaia – la nostra scienza! // […] Come trovatori danziamo / Tra santi e puttane, / Tra Dio e il mondo la nostra danza!».

Fra le varie questioni dibattute in questo volume, ne seleziono solo due, quelle che hanno avuto storicamente e teoricamente il peso maggiore: la prima, relativa alla morte di Dio (si veda, soprattutto, l’aforisma 125) e la seconda, che contiene in nuce la dottrina dell’eterno ritorno (l’aforisma 341).

L’affermazione di Nietzsche «Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso» – significativamente messa in bocca all’«uomo folle» - non va intesa come un grido di giubilo. Tale morte annunciata del Creatore e signore dell’universo, del Garante di quei valori morali assoluti e indiscutibili che hanno orientato per millenni le azioni visibili e i pensieri e i desideri invisibili degli uomini, lascia un vuoto difficilmente colmabile, scaricando su di loro la tremenda responsabilità di dare senso a un mondo privo di stabili e credibili punti di riferimento. Eppure, come mostra opportunamente Gentili, l’annuncio del fatto che Dio è morto non è di per sé scandaloso per gli ascoltatori dell’«uomo folle». Il suo uditorio è, infatti, costituito da una folla di non credenti che a tale comunicazione scoppiano in «una grossa risata». In maniera più o meno consapevole, gli “europei” questo lo sanno già. Ciò che ignorano è l’«ombra», la “traccia” che, scomparendo, Dio ha lasciato, vale a dire le premesse nascoste della fede in lui, che ora vengono erose e vacillano nella coscienza e nella scienza degli uomini. Capita al Dio cristiano quel che è accaduto a Buddha: «Dopo che Buddha fu morto, si continuò a indicare per secoli la sua ombra in una caverna, – un’immensa, orribile ombra. Dio è morto: ma, data la natura degli uomini, vi saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si indicherà la sua ombra. – E a noi – a noi resta da vincere anche la sua ombra!».

Certo, ai filosofi e agli «uomini liberi» la morte di Dio appare come la fine delle tenebre (»ci sentiamo illuminati dai raggi di una nuova aurora»). E, tuttavia, anche loro si rendono conto che «un qualche sole è tramontato, che una qualche antica e profonda fiducia sia stata rovesciata in dubbio». Per gli altri uomini l’impresa compiuta da loro stessi compiuta nell’uccidere Dio non è ancora entrata nelle «orecchie», perché non si sono accorti dell’enormità del loro atto. Le sue conseguenze si vedranno solo in seguito, quando un nuovo «oscuramento» colpirà l’Europa, disorientando i propri abitanti, ormai privi dei valori tradizionali e ancora incapaci di sostituirli con dei nuovi.

Leggiamo – o rileggiamo – con calma parte dell’aforisma 341 (che preannuncia l’idea dell’eterno ritorno, più diffusamente elaborata nello Zarathustra e nei Frammenti postumi), anche per assaporare la prosa di Nietzsche nell’efficace traduzione di Gentili. L’argomentazione utilizzata è, significativamente, al condizionale: «Come sarebbe se, un giorno o una notte, un demone s’insinuasse di soppiatto nella tua solitudine e ti dicesse: ’Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla almeno una volta e ancora innumerevoli volte; e non vi sarà in ciò nulla di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro e tutto l’indicibilmente piccolo e l’indicibilmente grande della tua vita deve fare ritorno a te, e tutto nella sequenza e successione – e altrettanto questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, e altrettanto quest’attimo e io stesso’ […] Se questo pensiero ti prendesse in suo potere produrrebbe in te, quale tu sei, una trasfigurazione e forse ti annienterebbe […]».

Da notare come l’esperienza dell’eterno ritorno abbia in Nietzsche un carattere inquietante e quasi sinistro e conservi il sapore di un ricordo infantile, di un déjà vu. Lo si può costatare in un passo dello Zarathustra, anche questo da gustare e perciò degno di una citazione abbastanza estesa: «E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna, e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non dobbiamo tutti essere stati un’altra volta? – e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno? […] E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare. Non avevo già udito una volta un cane ululare così? E il mio pensiero corse all’indietro. Sì! Quando ero bambino, in infanzia remota: – allora udii un cane ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa all’insù, tremebondo, nel più profondo silenzio di mezzanotte, quando i cani credono agli spettri: – tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte, saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandescente, – tacita sul tetto piatto, come su roba altrui […]».

Contrariamente a quanto si può supporre, l’idea dell’eterno ritorno non possiede un significato cosmologico, non si riferisce – alla maniera dei pitagorici e degli stoici – all’esatto ripresentarsi dei medesimi eventi, ma costituisce invece uno strumento per selezionare gli uomini, distinguendo chi accetta la decisione suprema di assumersi «il peso più grande» e chi la respinge. Anche se questo pensiero fosse falso, una volta assimilato, sarebbe in grado di dare agli eventi un senso diverso, di plasmare le convinzioni o le azioni di ciascuno. Volere l’eterno ritorno significa, infatti, determinare il corso della propria vita, così come accade nel cristianesimo, dove la prospettiva della dannazione o della salvezza eterne dirige i comportamenti effettivi in questo mondo. Per Nietzsche, a differenza della fede cristiana nell’al di là, la decisione di sopportare lo spostamento del centro di gravità dal paradiso o dall’inferno all’eterno ritorno terreno è dovuta alla convinzione che quest’ultimo aiuta a sviluppare maggiormente la vita (anche se, per certi aspetti, rappresenta una condanna), mentre il cristianesimo la deprime.

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