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Troppe paure sul nucleare

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scienza e filosofia

Troppe paure sul nucleare

Da quando, all’inizio del ’900, Lord Ernst Rutherford e la sua scuola costruirono la fisica nucleare così come la intendiamo oggi, un nuovo campo di fenomeni microscopici ha invaso la fisica, con conseguenze enormi per le possibilità tecnologiche di ogni tipo, comprese quelle militari e la produzione di energia: la realizzazione e l’uso della «bomba atomica» e dei reattori nucleari ne danno testimonianza.

Nacquero imprevisti problemi di sicurezza, e si rafforzò la necessità di collaborazioni mondiali per la loro soluzione; il trattamento dei rifiuti radioattivi e il controllo degli ordigni prodotti e del loro deprecabile uso in conflitti – dopo Hiroshima e Nagasaki – resero globale il problema.

In Italia, il grande fisico Edoardo Amaldi, dotato di rapporti e capacità politiche internazionali, si preoccupò della presenza di nostri ricercatori in questa cultura, mettendo il Paese nelle attività promosse da organizzazioni europee come Euratom: fu così che anche da noi nacquero preoccupazioni sui problemi della sicurezza e dello smaltimento di rifiuti di nuovo tipo, per l’appunto «radioattivi».

Oggi, questo settore è ormai avanzato anche da noi, sicché è comprensibile che una Conferenza internazionale (la XIX) si sia tenuta presso l’Accademia Nazionale dei Lincei nel marzo 2015, e che gli Atti siano stati raccolti a cura di Luciano Maiani, Said Abousahi e Wolfango Plastino, con grande partecipazione di esperti di tutto il mondo. Gli atti sono appena stati pubblicati dall’Editore Springer, e sono disponibili a tutta la comunità.

Gli argomenti specifici discussi riguardano le cooperazioni internazionali per rafforzare la sicurezza nucleare, le azioni opportune a questo fine, e, soprattutto, la cosiddetta «non proliferazione», cioè la garanzia che i paesi in grado di produrre tecnologie avanzate nel campo, le sfruttino per procurarsi un arsenale di ordigni di distruzione di massa. Le relazioni presentate a questa diciannovesima Conferenza Amaldi sono molto numerose e suggestive, e testimoniano soprattutto il fatto che le varie organizzazioni governative si tengono d’occhio a vicenda, per evitare che qualche paese si procuri una minacciosa superiorità militare, che però metterebbe a rischio tutta l’umanità.

Vorrei segnalare in particolare l’iniziativa SESAME, che è una collaborazione di ricerca pura tra i paesi mediorientali, che avrebbe soddisfatto molto Edoardo Amaldi, per il suo stile, simile a quello del Cern, nonché i contributi di Paolo Cotta Ramusino, per conto del Pugwash, sulla scia del manifesto Einstein-Russell relativo alla messa al bando delle armi nucleari.

Ma c’è inoltre il problema delle sorte dei rifiuti degli impianti attualmente in funzione e della possibile diversità di prospettive tra i vari paesi. Tuttavia, se confrontiamo lo sviuppo storico-politico italiano con quello confinante dei francesi, non possiamo non notare l’enorme differenza che viene dal fatto che da noi gli esponenti politici abbiano lavorato sugli equivoci per creare una differenza utile a orientare il consenso. Sicché in definitiva, in Italia la parola nucleare ha finito con il produrre una resistenza allo sviluppo tecnologico che va sempre più aggravandosi, specialmente per quanto riguarda la destinazione dei rifiuti a lunga vita media, trasformata in preoccupazione per la sorte dei nostri discendenti. Altri Paesi vicini – Francia e Spagna – non hanno prodotto condizionamenti altrettanto drastici. Ma su tutto questo si possono trovare abbondanti elementi in tutta la discussione avvenuta in questo convegno: naturalmente i difficili casi del Giappone e della Corea non vengono trascurati, ma analizzati per quello che sono.

Pur non avendo, in Italia, centrali se non disattivate, il problema dei «resti fumanti» di quelle ormai spente, angustia una parte della popolazione che teme di doversi occupare dei siti in cui scaricare il combustibile usato. Gli ultimi impianti funzionanti, particolarmente Caorso e Trino Vercellese, pongono interrogativi che vengono deliberatamente resi inquietanti perché nessuno li vuole nel proprio territorio.

Gli atti di questo convegno parlano di come altri Paesi, per esempio il Giappone, hanno affrontato questo problemi in situazioni ben più gravi delle nostre.

Speriamo che qualcuno se ne renda conto, e che, finalmente, quei pochi residui dell’uso ospedaliero di sostanze radioattive finiscano di tormentare i responsabili, che sono ancora nel mirino.

Insomma, gli atti di questo convegno meriterebbero una migliore e più competente attenzione ai problemi nostri: sull’esempio di quanto si fa altrove, qui ampiamente rappresentato.

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