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Mille e un Portogallo

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Arte

Mille e un Portogallo

  • –Goffredo Fofi

Impressionò due anni fa la visione di Redemption, il film del portoghese Miguel Gomes (classe 1972) che, mescolando repertorio e invenzione, raccontava le (patetiche, probabili) infanzie o gioventù di quattro capi di Stato di allora, quasi a spiegare le ragioni della loro miseria o solitudine, ma anche della loro visione della politica. Vi si reinventavano e spiegavano nientemeno che Coelho, Merkel, Sarkozy e il nostro Berlusconi, campioni interventisti della nuova Europa nelle mutazioni mondiali.

Arabian nights (As mil e uma noites) è altrettanto se non più originale nella fattura, ma ne è stato scritto da Cannes soprattutto a causa della sua lunghezza, più di sei ore e mezzo, anche se in definitiva si tratta di tre film, diversi tra loro ma uniti dalla volontà di raccontare il proprio Paese e di mettere in discussione il linguaggio del cinema, di cui il film rivendica le possibilità ancora straordinarie di ibridazioni impreviste, di scavi minimali o al contrario sontuosi e massimali e dove fiaba e poesia, realtà e fantasia, satira e invettiva, concreto e astratto, io e mondo, apparente e nascosto, razionale e visionario possono trovare inedite promiscuità e inediti equilibri e dire molto di più di quanto non possa dire una coerente invenzione narrativa o una esplorante dimensione documentaria. Dietro le scelte di Gomes ci sono tante ricerche precedenti, di un cinema libero nelle forme e coerente nel progetto, soprattutto europee (francesi, ma anche russe o polacche, anche spagnole e portoghesi: le nouvelles vagues e le loro propaggini; e non è un caso che Gomes sia arrivato alla regia partendo dalla critica cinematografica) ma anche mediorientali, anche orientali. Non a caso il titolo originale del film è Le mille e una notte, non a caso il modello Sherazade del racconto nel racconto serviva alla narratrice ad aver salva la vita, e nel caso di Gomes sembra servirgli a dare un senso alla propria, cercando i motivi che possono dar senso alla vita, in generale, degli umani. A salvarsi l’anima e non solo la vita. E anche a ingannare il potere, a procurargli fastidi. Forse c’è anche Lo cunto de li cunti, nell’ombra, ma in una chiave attuale e politica che Garrone ha trascurato nella sua versione, affascinato dall’altra della magia e del “mostruoso”. E se non c’è il cunto c’è quel che all’opera di Basile somiglia all’interno di una ricchissima tradizione iberica.

Ecco dunque il documentario (da qui si parte, dalla crisi vissuta concretamente dagli operai dei cantieri navali portoghesi) ma con la veloce fuga del regista, in persona, dal set, insoddisfatto di un cinema militante che si restringe alla parte, costretto in qualche modo a essere riduttivo, e subito ecco il grottesco di convegni di esperti che sono portoghesi quanto americani o altro, preoccupati anzitutto dall’avercelo duro, concretamente e non solo metaforicamente. Il regista non sa reggere il peso della realtà e lascia il campo a Sherazade, che la realtà sa favoleggiarla e cioè interpretarla oltre il ricatto del vero apparente, e sa esplorare i modi di leggerla e di immaginarla – per lei, una questione di vita o di morte – con la libertà di più tradizioni.

I tre film di cui è composto Arabian nights sono diversi tra loro e avanzano nella realtà portoghese con l’aiuto di più tradizioni, anche se a guidarli c’è una stessa preoccupazione, ed è quella che li unisce, che ne fa una cosa sola. Ognuno dei tre film o blocchi ha un titolo: Inquieto, Desolato, Incantato. Alludono al tono della narrazione e all’umore del regista ma sono aggettivi che esigono un sostantivo, che non può essere che: Portogallo. È il suo Paese l’ispirazione e la preoccupazione di Miguel Gomes, che parla del Portogallo e al Portogallo anche se per tanti aspetti parla della vita umana nel contesto della natura e vituperando la storia – come infine ha fatto Sherazade, la musa che si è scelto per poter entrare in una totalità aiutato dalla varietà del racconto.

Nell’Inquieto le forme sono più varie e concludono, dopo le divagazioni su disoccupati e su vespe (la crisi di un modello sociale, la minaccia di una natura violentata) e dopo le peregrinazioni di un vecchio assassino che il popolo esalta perché non rispetta la legge, su un processo favoloso e brechtiano, da apologo triste e antico sull’umana miseria non solo portoghese, dove una giudice compassionevole scopre, aiutata da un genio e da testimonianze animali, che tutto al mondo finisce per essere violenza e raggiro, arte del mentire agli altri e perfino a se stessi come in una giostra ossessiva. Ci sono i “giusti” vicini a noi, tra di noi? Forse sì, ma vanno cercati tra i poveri e gli ingenui. O magari nel sindacalista bizzarro di un altro episodio, che cerca periodicamente di divertire i disoccupati portandoli al mare. O nel gallo che si rifiuta di starsene zitto e non cantare, anche se il paese lo reprime.

Nel Desolato, una breve introduzione fantasiosa con esotiche bathing beauties lascia il campo a una apparentemente varia ma in definitiva monotonamente unitaria galleria di vite comuni metropolitane, rallegrata soltanto da un piccolo cane dalle molte vite che è un’alterità modesta, che sembra però avere qualcosa di divino... Tristezza, squallore, vite senza vita – come tante e dovunque – in una galleria che potrebbe essere di qualsiasi città europea grande o piccola o media, inglese o russa, parigina o romana...

Un antefatto arabizzante apre anche nel terzo film, Incantato, a una utopia di tipo nuovo, un’utopia ingenua e modesta però possibile, anche se intralciata dalla mole putrefatta, che nasconde violentissime esplosioni, di un mostro marino arenato sulla spiaggia dove miti operai cercano una attiva serenità. Viene alla mente il finale della Dolce vita, ma qui c’è, subito dopo, un’attiva dimostrazione di speranza, c’è il canto degli uccelli e c’è il loro libero volo (Gomes ha diretto anche un film che non conosco sul Cantico delle creature!), e c’è l’amore dei proletari per la loro musica e per la loro libertà. È in questo amore rispettoso degli uomini per il canto della natura che andrà cercata salvezza? E nel ricordo di una rivoluzione pacifica di qualche decennio fa? Nella compresenza di autoctoni e immigrati attorno al proposito di nuove armonie? Si tratta forse di uno strano ritorno alla politica da parte di un regista che non intende affatto considerarsi disincantato, e che crede in nuovi incanti e nuove chimere, senza i quali – sembra dirci, anzi ci dice – la vita non può essere vita, senza i quali la storia si fermerebbe, e vincerebbe l’assurdo.

Non è un film come gli altri, Arabian nights, con tutto il rispetto per chi sa ancora maneggiare modelli narrativi tradizionali ancorché sofisticati e al gusto del giorno. Ma è proprio questa differenza a fare il suo fascino e a renderlo necessario.

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