Cultura

Mille sfumature di nero

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Mille sfumature di nero

Una decina d’anni fa il Museo J. Paul Getty di Los Angeles ricevette la donazione di un disegno di Maxime Lalanne, artista francese vissuto fra il 1827 e il 1886, raffigurante un castello su un fiume. Lee Hendrix, direttrice del dipartimento del museo che si occupa di disegni, racconta che l’opera, graziosa ma non particolarmente innovativa, avrebbe potuto essere accantonata; si decise invece di usarla per studiare connessioni indipendenti dalle classiche categorie di tradizione e avanguardia e dall’altrettanto classica riverenza per l’originalità, centrate piuttosto sull’esplorazione delle tonalità di grigio da parte di autori interessati a soggetti diversi (paesaggisti, ritrattisti, maestri del fantastico) e praticanti tecniche diverse (carboncino, come nel caso di Lalanne; china, acquaforte, stampa, litografia). Giovandosi della disponibilità di ampio materiale locale, situato al Getty, all’altro Museo Hammer di Los Angeles e in collezioni private, Hendrix, Cynthia Burlingham dello Hammer e i loro collaboratori hanno esaminato questo materiale per anni, spesso al microscopio, rivelando una straordinaria gamma di variazioni sperimentali che allo stesso tempo mettono in luce le enormi possibilità espressive dei mezzi usati e consentono a ciascun artista di sviluppare una sua specifica personalità. Ne è nata una mostra affascinante, oggi al Getty: Noir, The Romance of Black in 19th Century French Drawings and Prints.

Colpisce, nel visitarla, la ricchezza di emozioni, personaggi e ambienti evocati con modalità così limitate da apparire ascetiche: sostanzialmente, nero su carta. Nella Testa di una baccante addormentata di Gustave Courbet (1847) una giovane donna con una ghirlanda di foglie di vite in capo sembra assorta, a occhi chiusi, in una sua visione a noi inaccessibile: il tratto è sfumato come l’immagine di un sogno e il chiarore discreto che illumina le gote e il collo della dormiente è il bianco della carta che Courbet lascia trasparire. L’uomo che legge il giornale e fuma la pipa (1864) è delineato da François Bonvin con rigorosa cura di ogni dettaglio (del volto rugoso, della chioma che fuoriesce indisciplinata dal cappello, delle mani secche e nodose, della consistenza dei pantaloni di velluto); ma stagliandosi su uno sfondo uniformemente scuro la sua figura tanto precisamente caratterizzata perde ogni carattere aneddotico e assurge a modello ideale di un’umanità consapevole e misteriosa. Nella Guerra civile di Édouard Manet, composto nell’anno (1871) della Comune di Parigi, i cadaveri in primo piano e la devastazione nella media distanza e sullo sfondo sono riprodotti con uno stile violento e approssimativo, disinteressato alla correttezza della rappresentazione, teso a comunicare il senso di un ordine sociale che si disgrega, di un marasma che penetra i luoghi della quotidianità. Con l’Occhio come un bizzarro pallone si dirige verso l’infinito di Odilon Redon (1882) siamo in un surrealismo che fa pensare al primo Buñuel, ma è ancora una volta la severità del bianco e nero a spogliare questo occhio che si libra nel cielo come una mongolfiera di ogni assurdità e morboso compiacimento: a imporre la metafora di uno sguardo che non conosce e non accetta confini. Nelle Attrici nei loro camerini (1879-80) lo sguardo di Edgar Degas s’inoltra pudico e rispettoso nello spazio privato di donne al lavoro, lasciandocene appena intuire le forme, affermandone l’indipendenza senza esporne il segreto.

Un aspetto importante del lavoro riflesso in questa mostra riguarda l’attenzione prestata alla tecnologia che sottende l’arte. Il carbone, simbolo e veicolo principale della rivoluzione industriale, compare qui da protagonista soprattutto perché l’industria sviluppava metodi sempre più efficaci per fissarlo alla carta, trasformando un materiale fragile e precario in uno strumento capace di sfidare il tempo. Ma il legame fra il tema della mostra e la rivoluzione industriale è, forse, più generale e profondo.

Il mondo che scaturisce dalla rivoluzione industriale è astratto, popolato non da elementi naturali adattati a nostri scopi (un cavallo alla locomozione, una grotta sotterranea alla conservazione dei cibi) ma da oggetti artificiali (elettrodomestici, automobili, computer) concepiti per adempiere a ben determinate funzioni, dotati di rigorose forme geometriche non riscontrabili in natura, costruiti in una serialità che ripete all’infinito quelle forme. Tale astrazione ha un suo risvolto percettivo. La vista, considerata il senso più veridico, ci offre un mondo a colori, e colorata era l’arte che aveva intrattenuto e educato il pubblico per secoli: dalle pale d’altare ai cicli di affreschi, dal teatro alla lirica. Il mondo astratto annunciato dalla rivoluzione industriale cambia anche l’arte. Mentre la pittura e la scultura s’indirizzano verso l’astrattismo, le arti più popolari (la fotografia, il cinema, la televisione) attraversano decenni di astrazione dal colore, e quando lo riscoprono lo trasformano in un’esperienza a sua volta artificiale: più vivida, più contrastata, più invadente di quanto il colore fosse mai stato. Lo riscoprono, per così dire, a partire dall’artificialità sancita dal bianco e nero e ormai diventata parte integrante della cultura. La mostra Noir, dunque, ci presenta la cifra stessa della rivoluzione industriale: ci introduce al mondo generato da quella rivoluzione, un mondo di ombre delicate e sfuggenti, eteree e oniriche, irrimediabilmente astratte.

Noir, the Romance of Black in 19th Century French Drawings and Prints,
al Getty Museum di Los Angeles fino al 15 maggio

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