Cultura

Il museo della «tratta»

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Il museo della «tratta»

Di recente ho visitato uno strano museo. Dico strano perché il termine “museo” che il luogo pretende di rappresentare non mantiene più alcun rapporto con l’etimologia. Lì, infatti, non si testimonia la civiltà, non la bellezza e la bontà delle arti, ma il contrario perfetto: un’offesa durata secoli e incancellabile, per quante vernici e istrionizzazioni ci si mettano sopra. Sto parlando del Mémorial ACTe, aperto meno di un anno fa davanti al colpevole mare, sul simbolico sito di un decaduto zuccherificio, alla periferia di Pointe-à-Pitre, capitale della Guadalupa, con il fine di istruire il turista sulla “tratta transatlantica dei negri”: la deportazione di massa più ingente di tutti i tempi nonché uno degli esempi più clamorosi di economia dello sfruttamento cui l’occidente abbia dato impulso, cominciando proprio all’epoca del cosiddetto Rinascimento. Ariosto dà alle stampe il monumento dell’umanesimo europeo, il suo Orlando furioso, che celebra non a caso le recenti scoperte geografiche, e dall’altra parte dell’oceano cadono per mano degli stessi figli dell’umanesimo culture e popoli millenari.

Per la realizzazione del Mémorial ACTe, che secondo il progetto iniziale doveva avere per sede Parigi, è stata decisiva anche la più semplice volontà di rafforzare il senso comunitario dell’isola, popolata per il novantacinque per cento dai discendenti degli schiavi africani, e dei Caraibi tutti, che della tratta sono stati fin da subito l’ideale destinazione. Il credo del Mémorial ACTe si riassume nel proclama di – guarda un po’ – “un nuovo umanesimo”, che valorizzi la dignità del presente e mantenga vivo il ricordo degli orrori.

Il discorso sulla tratta e la schiavitù è tanto fondamentale per l’identità dei neri quanto quello sui ghetti e sui campi di sterminio per l’identità ebraica, ed entrambi i discorsi certamente si rivolgono a ognuno di noi con uguale urgenza, perché interessano i fondamenti stessi delle nostre società e della nostra “modernità”. Se l’antisemitismo continua ad agire nonostante tutto, è anche vero che, nonostante tutto, forme di asservimento fisico sono ancora diffuse in numerosi Paesi, specie in Africa e nel Medio Oriente. I più colpiti sono i bambini, strappati alle famiglie, venduti e costretti a lavorare in condizioni disumane, soprattutto nell’agricoltura. L’Organizzazione internazionale del lavoro informa che duecentoquarantasei milioni di minori, compresi tra i cinque e i diciassette anni, svolgono mansioni molto pericolose e che oltre otto milioni sono vittime della schiavitù e del lavoro forzato. Il settanta per cento di questi lavoratori prigionieri non percepisce guadagno.

Musei come quello di Pointe-à-Pitre si contano davvero sulle dita di una mano. Hanno fatto parlare negli ultimi anni l’“International Slavery Museum” di Liverpool, aperto nel 2007, e la Whitney Plantation, inaugurata alla fine del 2014 in Louisiana, a Wallace, e salutata – incredibile ma vero – come il primo museo americano della schiavitù. Il Mémorial ACTe è il più notevole dei tre, se non altro per le ambizioni pedagogiche e per la monumentalità della costruzione, che è stata realizzata dagli architetti guadalupensi Jean-Michel Mocka-Célestine e Pascal Berthelot con fondi europei (non si dimentichi che Guadalupa è un dipartimento della Francia).

Distesa su un punto dell’insenatura portuale, la costruzione consiste in un grandioso parallelepipedo di granito nero, punteggiato di quarzo e ricoperto da un intreccio di bande metalliche, costituito da più corpi, la cui superficie complessiva è di quasi ottomila metri quadrati: il granito sta per la memoria dei sommersi, il quarzo per traccia dei salvati e l’intreccio per le radici di una civiltà comunque superstite.

Lo spazio dell’esposizione permanente occupa millesettecento metri quadrati, ed è suddiviso in sei arcipelaghi tematici, che includono varie isole: oggetti artistici antichi e moderni, rare suppellettili del periodo della tratta, ricreazioni di ambienti (capanne, navi, l’orticello degli schiavi), fotografie, ritratti su tela, statuette, stampe, costumi, mappe, video, proiezioni su grande schermo, cartoni animati. Si tratta di un percorso didattico di grande efficacia, che ricostruisce la storia della schiavitù fin dall’antichità, passando per la decimazione dei popoli autoctoni – immediato effetto della scoperta dell’America e ragione principale per l’importazione coatta di manodopera –, per gli usi quotidiani delle comunità schiave e arrivando ai tempi delle proteste illuministiche, delle varie abolizioni (con vergognose ricadute, come quella napoleonica) e del formarsi della négritude e di una coscienza internazionale del problema. Splendidi gli spezzoni di documentario sul Congresso internazionale degli intellettuali e artisti neri che si tenne a Parigi nel 1956, dentro l’anfiteatro della Sorbona, ed ebbe ospiti figure come Richard Wright, Aimé Césaire Amadou Hampâté Bâ, James Baldwin e Joséphine Baker.

Si esce dal Mémorial ACTe con il cuore grosso, senza parole, nonostante l’atmosfera tecnologica, la scientifica e tutt’altro che animosa presentazione dei materiali, l’eleganza consolatoria del design, l’azzurro prospiciente delle onde. O forse proprio per tutte queste cose. Perché non può esserci consolazione; perché un museo non basta. La “tratta dei negri” è e deve essere una questione attuale, una cosa di cui parlare a scuola, nelle case, sui media. Là, infatti, è non solo il prodromo di molto sfruttamento attuale, ma anche lo specchio delle tante violente migrazioni che hanno il punto di arrivo sulle nostre terre e ancora si originano in quell’Africa da noi distrutta e dimenticata.

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