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«Love & Mercy», biopic su Brian Wilson dei Beach Boys

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«Love & Mercy», biopic su Brian Wilson dei Beach Boys

La musica è protagonista nelle sale italiane grazie a «Love & Mercy», atteso biopic su Brian Wilson dei Beach Boys, che è indubbiamente uno dei film da non perdere tra le novità al cinema di questo weekend. Tra le nuove uscite anche «L'infinita fabbrica del Duomo», documentario di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, e «Race – Il colore della vittoria» di Stephen Hopkins.

Raccontare un'esistenza tutt'altro che banale come quella di Brian Wilson è impresa non facile, ma il regista Bill Pohlad è riuscito a portarla sul grande schermo nel modo giusto, senza affidarsi eccessivamente alla retorica e puntando soprattutto sulle notevoli performance del suo cast.

Wilson è interpretato da giovane da Paul Dano e da adulto da John Cusack, entrambi pienamente in parte e in grado di restituire un ritratto appassionato di un artista importante, che ha dovuto affrontare non poche difficoltà: dal non semplice distacco dal padre-padrone all'incontro con un controverso psichiatra interpretato da Paul Giamatti. In mezzo, i momenti di massima ispirazione musicale, con una menzione particolare per la sequenza in cui si racconta la scrittura di «Good Vibrations». A tratti è un biopic decisamente canonico e un po' prevedibile, ma la personalità unica di Wilson lo rende comunque suggestivo, interessante, coinvolgente. Da vedere.

Un risultato di rilievo è anche quello ottenuto da due bravi documentaristi italiani come Massimo D'Anolfi e Martina Parenti con «L'infinita fabbrica del Duomo», film che descrive la storia della nascita e del continuo mantenimento del Duomo di Milano attraverso i secoli.

Quello della coppia di registi è un lavoro minuzioso e dettagliato, che si sofferma senza mai annoiare sull'attività artigianale di preservazione di un tale patrimonio artistico. A colpire non sono soltanto le immagini, ma anche l'attento lavoro sul sonoro e alcune scelte stilistiche (il finale, in primis) tutt'altro che banali. È anche un'acuta riflessione sul tempo che passa, davvero da non perdere.

Infine, una segnalazione per «Race – Il colore della vittoria» di Stephen Hopkins, ambientato ai tempi delle Olimpiadi di Berlino del 1936. In pieno regime nazista, la squadra statunitense decise di inviare l'afroamericano Jesse Owens a concorrere: ci volle la mediazione di Avery Brundage per evitare l'incidente diplomatico e Owens finì per portare a casa quattro ori (100 metri, 200 metri, staffetta 4x100 e salto in lungo), umiliando le politiche razziste hitleriane.

Uno straordinario episodio della storia contemporanea viene superficializzato in questa pellicola troppo retorica ed edulcorata, incapace di rappresentare adeguatamente una vicenda tanto importante. Hopkins fa leva sugli aspetti più populisti, veicolando un generico messaggio di no al razzismo senza però toccare le giuste corde emotive e coinvolgere come avrebbe dovuto. Discreta la performance del protagonista Stephan James, ma non basta.

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