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La compagnia dei libertini

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La compagnia dei libertini

Cosa sia la libertà è un'idea semplice, che tutti intuitivamente condividiamo, legata alle nostre vite quotidiane e alle nostre concrete possibilità di scelta e di movimento. Ma, come ha spiegato lo psicologo americano George Lakoff, la libertà è un concetto vago e, al contorno di quel nocciolo condiviso, lascia una serie di caselle aperte che vanno riempite. A seconda del modo di colmare questi vuoti si otterranno, per esempio, negli Stati Uniti dei nostri giorni, la libertà dei repubblicani e quella dei liberal, due idee radicalmente diverse che tuttavia continueranno a condividere una certa aria di famiglia. Nella Francia del Settecento, quelle caselle furono riempite in un modo che oggi ci sembra ancor più sorprendente.

Che cosa poteva avere a che fare la libertà sbandierata dai rivoluzionari del 1789 con quella coltivata dai gaudenti libertini appartenenti all'aristocrazia del tempo? Apparentemente pochissimo. Molto invece se si guardano da vicino le storie individuali raccontate nell'ultimo libro di Benedetta Craveri. Proprio durante il famigerato 1789, Joseph-Marie Vien dipingeva la tela allegorica Amore che fugge la schiavitù, e qualche anno prima, ispirandosi a un antico affresco, la più famosa Venditrice di Amorini. Il committente era, in entrambi i casi, il duca Louis Hercule Timoléon de Brissac, celebre alla corte di Versailles per la sua fedeltà al sovrano Luigi XVI, ma anche per essere un donnaiolo impenitente.

Brissac era un grande collezionista d'arte e volle donare questo dipinto alla sua amante più gradita, Jeanne du Barry. Ex cortigiana d'alto bordo - la ricorderete nel film Marie Antoinette di Sofia Coppola -, la du Barry fu voluta a Versailles dal re Luigi XV che ne fece la sua favorita suscitando la disapprovazione di tutti i nobili, soprattutto della delfina Maria Antonietta, la quale le dichiarò una vera e propria guerra che si concluse, alla morte del Bien-Aimé, con la reclusione per un intero anno dell'ex favorita, trentenne e ancora bellissima, in un monastero di suore a Pont-aux-Dames.

La donna, che nel film, viene descritta come una prostituta a malapena ripulita, affettata e molto capricciosa, in realtà era di buon carattere e, con coraggio e dignità, era sopravvissuta indenne ai veleni della corte. Una volta uscita dal suo ritiro monacale forzato, la du Barry acquista una splendida residenza, Saint-Vrien a Louvecienne, dove il duca de Brissac sarà il favorito tra gli amanti.
Brissac era un fervido sostenitore della cultura dei Lumi, a giudicare dai testi presenti nella sua biblioteca, tra cui Lo spirito delle leggi di Montesquieu e il Dizionario storico-critico di Bayle. Il dipinto Amore che fugge la schiavitù esprimeva quella fede incrollabile dell'aristocrazia francese del Settecento galante, creatore della “civiltà perfezionata”, in una libertà dell'amore e del cuore, unico privilegio davvero felice in un'epoca in cui i matrimoni erano meri contratti sociali che imponevano a ciascun individuo un destino che non si era scelto.

Per i giovani della cerchia di Luigi XVI e di Maria Antonietta, che si trovavano alle soglie del 1789, la parola «libertà», dunque - così come anche la parola «liberalità», altro concetto-cardine dell'etica aristocratica - aveva un significato e un sapore ben diverso rispetto alla parola «libertà» che sentivano risuonare sulle labbra degli esponenti politici del Terzo Stato e degli intellettuali e philosophes intenti a diffondere la cultura dei Lumi. Per questi ultimi «libertà» significava il riconoscimento dell'uguaglianza naturale di tutti gli uomini indipendentemente dal ceto sociale. Eppure, per alcuni nobili di Versailles, la parola libertà riuscì ad assumere un'estensione semantica eccezionalmente vasta: nella libertà riconoscevano sia il privilegio di rango di cui godevano, sia l'amore per l'eleganza e per una vita al cui centro campeggiava l'avventura amorosa come uno dei massimi cimenti, sia ancora la necessità di aprire la monarchia francese a un rinnovamento politico radicale di tipo costituzionale che, riconoscendo dignità politica al Terzo Stato, avrebbe finalmente messo fine alle follie e agli sperperi della corte nonché allo strapotere dei ministri di Luigi XVI.

Benedetta Craveri, ne Gli ultimi libertini,ricostruisce (in una maniera in verità spesso assai faticosa per il lettore, che può facilmente perdere il filo tra innumerevoli, complicatissime storie di alcova) la storia di sette di questi aristocratici che furono sì “libertini”, ma lo furono in senso lato, poiché si dedicarono al libertinaggio comunemente detto come a un'arte galante piena di sprezzatura, ma al contempo credettero nel valore del sentimento amoroso, non meno che in quello illuministico e patriottico. Erano tutti lettori dell'Encyclopédie, conoscenti se non amici di Diderot e di Voltaire, e in maniera più o meno impegnata furono protagonisti del rinnovamento culturale che la Francia conobbe nel corso del XVIII secolo e che si tradusse nel cambiamento di status politico in cui tutti loro speravano. Nessuno aveva immaginato che questo avrebbe assunto il volto raccapricciante del Terrore rivoluzionario.

Vi troviamo il duca Armand-Louis de Lauzun, celeberrimo per le sue avventure amorose alquanto rocambolesche: lo vediamo una prima volta nascosto nell'armadio della sua giovane amante, mentre il suo vero padre naturale, il duca di Choiseul, cerca inutilmente di sedurre la giovane nella camera da letto di lei; lo ritroviamo ancora rinchiuso in un altro armadio per ben 36 ore, mentre la sua altra amante, Izabela Czartoryska, partorisce il figlio di lui nella casa del marito in Polonia; due scene tipiche di una civiltà abituata a vivere la vita come su un palcoscenico, che ricordano assai da vicino l'intreccio de Le nozze di Figaro, opera che in Francia fu censurata per molti mesi dopo la prima rappresentazione.

E che dire del visconte Joseph-Alexandre de Ségur? Seduttore impenitente, dette pubblico scandalo per la sua convivenza, a Parigi, con la ballerina dell'Opera Julie Careau, che rese madre; fu lui a comporre, in perfetto stile “illuminista” un pamphlet intitolato Essay sur le moyen de plaire en amour, un'ars amandi galante che faceva del corteggiamento un metodo razionale con leggi rigorose: e fu sempre lui, in quanto sostenitore del duca d'Orléans come alternativa riformista alla monarchia del cugino Luigi XVI, a introdurre al Palais-Royal di Parigi l'autore de Le relazioni pericolose, Monsieur de Laclos.

Il conte Louis-Almaric de Narbonne, detto “Demi-Louis” per la sospetta somiglianza con Luigi XV, visse un'intensa storia d'amore con la figlia del ministro delle finanze Necker, con quell'intellettuale finissima dal nome Germaine, sposata al barone svedese de Staël von Holstein. Fu Madame de Staël a instillargli l'amore per le idee dell'illuminismo politico in voga nei salotti di Parigi, e fu lei la sua salvatrice nel momento di maggiore recrudescenza del Terrore: fece nascondere Narbonne e con grande coraggio, pur essendo incinta di un figlio illegittimo di Narbonne, riuscì a salvarlo da una perquisizione da parte delle sopraggiunte guardie rivoluzionarie.

Il cavaliere Stanislas-Jean de Boufflers, poi, ha consegnato alla storia della letteratura uno dei carteggi amorosi più straordinari del Settecento francese. Boufflers fu inviato come governatore in Senegal, con lo scopo di potenziarne gli empori francesi ma, una volta giunto sull'isola di Saint-Louis, alla foce del fiume Senegal, non poté non rimanere allibito dall'assurdità e dalle condizioni proibitive di vita, tra miseria e malattie, delle popolazioni locali e per l'inumanità con cui gli schiavi neri, oggetto di mercato, venivano trattati dalla Compagnie du Senegal. Da intellettuale illuminista qual era, lettore dell'Encyclopédie e interessato a tutti gli aspetti naturali, antropologici e culturali della vita e del mondo, egli tradusse in pratica le sue nozioni teoriche e si impegnò, durante il suo soggiorno in Africa, nella costruzione di edifici stabili, nella bonifica di paludi, nel salvare da sicura rovina alcuni bambini africani orfani. Al suo rientro, non mancò di sensibilizzare l'opinione pubblica sulle condizioni indegne dello stato della schiavitù, un concetto ben diverso da quello rappresentato nel dipinto di Vien.

Ma per tornare ai nostri due amanti, il duca di Brissac e la du Barry, entrambi furono colpiti atrocemente dalla Rivoluzione. Brissac rifiutò di emigrare, come invece aveva fatto gran parte dei nobili di Versailles, a Coblenza o a Londra, perché rimase fedele al motto di Maria Antonietta secondo cui «un gentiluomo è sempre al suo posto quando è accanto al re»; incriminato per lesa Nazione, non arrivò nemmeno alla ghigliottina, perché durante un trasferimento verso la prigione su un carro aperto, venne assalito dalla folla inferocita.
Quanto al duca di Biron, egli mantenne abitudini galanti anche in galera; d'altronde, ai nobili venne permesso di arredare le celle con mobilia di pregio e di ricevere visite durante il giorno. Ricevette un'ultima lettera della sua storica amata, Madame de Coigny, che in occasione della morte di Luigi XVI gli scrisse «O Libertà, quanto male ci infliggi in cambio dei beni che ci avevi promesso!». Poi, prima di salire sulla ghigliottina, Biron si fa servire ostriche e vino d'Alsazia e fa un ultimo brindisi con il secondino e con il boia.

Tutti costoro avevano davvero creduto nella libertà, anzi nelle libertà, ma non si erano resi conto di aver collaborato alla propria rovina. Ciò che non potevano prevedere, scrive Craveri, era «che la violenza sarebbe venuta dal basso e che, impotente davanti alla furia giacobina, la più antica e coraggiosa nobiltà d'Europa non sarebbe stata in grado di difendersi e, come avrebbe scritto Taine, si sarebbe lasciata arrestare docilmente, giacché fare strepito sarebbe stato di cattivo gusto e l'importante, per gli aristocratici, era rimanere ciò che erano, gente di buona compagnia».
Benedetta Craveri, Gli ultimi libertini , Adelphi, Milano, pagg. 620, € 27

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