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23 aprile 1616: vite nella tempesta

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23 aprile 1616: vite nella tempesta

Tra il 23 aprile 1564 e il 23 aprile 1616 si compiva la vita di William Shakespeare. Sono due date convenzionali, la prima dedotta dal giorno del battesimo, il 26, ed entrambe basate sul calendario giuliano, al quale l’Inghilterra riformata ancora si teneva. Ma sono universalmente accettate e trasportate nel calendario gregoriano, il nostro. Il 23 aprile del 1616 scomparvero anche Miguel de Cervantes, l’inventore del Chisciotte, e lo straordinario narratore della conquista della Florida e del Perù, Garcilaso de la Vega el Inca. Insieme, i tre aprirono il mondo nuovo della cultura e della letteratura moderne. Vissero nella tempesta del loro tempo. Fuggiasco in Italia, Cervantes combatté e fu ferito a Lepanto, passò cinque anni da prigioniero e schiavo ad Algeri, chiese di poter andare in America (la domanda fu respinta). Garcilaso, figlio di una principessa Inca e di un conquistador spagnolo, visse in Perù i primi venti anni della sua vita, poi si spostò in Spagna: la sua tempesta fu il racconto della fine di una civiltà. Shakespeare seppe mettere in scena tutte le tempeste della vita: del potere, del conoscere, dell’amare.

Lirico di vaglia, Cervantes inventò trame e personaggi tra i più avvincenti di tutti i tempi: non soltanto Don Chisciotte della Mancia e il suo scudiero Sancio Panza, ma anche quelli delle novelle, delle commedie, e del romance di Persiles e Sigismunda. Shakespeare creò dozzine di personaggi e di intrecci, tra i quali forse un Cardenio ripreso dal Chisciotte – inventò, come sostiene Harold Bloom, l’uomo – e la donna: Giulietta e Romeo, Giulio Cesare e Bruto, Antonio e Cleopatra, Shylock e Jessica, e Viola, Marina, Ermione, Imogene … Verso la fine della sua vita, pubblicò una raccolta sublime di Sonetti (per un «bel giovane» e una «dama scura», forse nera) e si diede a mettere in scena trame romanzesche dove la tempesta, quella fisica del fortunale, sulla terra e soprattutto in mare, domina con la forza dell’uragano ma produce poi riconciliazione e rinascita: dalla brughiera dove Lear impazzisce all’oceano di Pericle, dal mare di Boemia (!) nel Racconto d’inverno alla Tempesta, l’ultima opera che compose da solo.

Cosa vogliano dire La Tempesta, e il vivere nella tempesta, ce lo spiega il libro del tutto speciale di Nadia Fusini, Vivere nella tempesta. La copertina dice già (quasi) tutto: nel celebre quadro di John William Waterhouse che vi figura una Miranda dai capelli rossi, seduta su uno scoglio, guarda (mira) una nave che affonda nella tempesta. Così fa anche Nadia Fusini: fissa l’opera di Shakespeare, la scandaglia a fondo, e contempla il vivere, l’immaginare, il pensare, che essa suscita. Raccontando tante storie. Innanzitutto, riscrivendola, quella della Tempesta, la sua trama stregata e intrigante. Nella quale campeggia un’isola misteriosa in mezzo al Mediterraneo (e forse anche da qualche parte tra le Bermude e la Patagonia) dove naufraga una nave con a bordo il re di Napoli Alonso, suo figlio Ferdinando e suo fratello Sebastiano, il duca di Milano Antonio, e vari cortigiani.

Sull’isola vivono il gran mago Prospero, già duca spodestato di Milano, sua figlia Miranda, lo spirito Ariele e lo “schiavo”, il mostro umano Calibano (il cui nome è anagramma di «cannibale»). La tempesta è stata inscenata da Prospero, e nel naufragio non è perito nessuno. I naufraghi approdano in punti diversi, Ferdinando opportunamente vicino a dove si trovano Prospero e la figlia, perché i due giovani si innamorino perdutamente l’uno dell’altra. Il re di Napoli e il duca di Milano devono invece compiere un lungo cammino attraverso l’isola, mentre Calibano si mette al servizio di Stefano e Trinculo, due marinai, per organizzare un colpo di stato contro il padrone. Più tardi, Antonio e Sebastiano complottano per strappare il regno di Napoli ad Alonso (ah la tempesta della lotta per il potere). Falliscono miseramente, e alla fine Prospero perdona tutti, anche chi non si pente (come il fratello Antonio che aveva portato via a lui il ducato milanese), prepara le nozze di Ferdinando e Miranda con affascinanti spettacoli, e abbandona la magia.

Nadia Fusini segue questa trama, e le sue complicazioni, scena dopo scena: compie una lettura piana, come fosse quella del New Criticism. Ma vi inserisce anche episodi della Storia, quasi fosse adepta del New Historicism: la regina Elisabetta e il suo successore, Giacomo VI di Scozia e I d’Inghilterra, la Sea-Adventure che naufragò (ma tutti scamparono) alle Bermude, l’Invincibile Armata spagnola, l’esploratore-corsaro-spia-scrittore Sir Walter Raleigh, l’indiana Pocahontas, lo svizzero Thomas Platter in visita a Londra. Tutti servono a gettare luce trasversale sulla Tempesta, nella quale, per dirne una, Shakespeare menziona le Bermude: incrociano la Storia con la finzione. Dispiega davanti ai nostri occhi, Nadia Fusini, quadri famosi, che sono come specchi del dramma: il Dittico Wilton, La Tempesta di Giorgione e quella di Turner. Convoca Faust e Robinson, Macbeth e Amleto, Lear e Cordelia, Riccardo II e Clarence che sogna nel Riccardo III. Cita Platone e Aristotele, Virgilio e Ovidio, Ficino e Montaigne: sulla meraviglia, il mito, la poesia, la magia, i cannibali. Ci ricorda i libri che per lei ruotano attorno alla Tempesta: Keats, Moby Dick, T.S. Eliot, Virginia Woolf, Anna Maria Ortese. E commette due peccati che al critico, quando è ancora studente, i professori dicono di evitare a ogni costo: mette infiniti puntini di sospensione, talora tre o quattro volte in uno stesso periodo, per suggerire che ci sarebbero moltissime altre cose da dire e che La Tempesta è «inesauribile» e «inafferrabile»; e racconta storie della propria vita, soprattutto della sua infanzia: la nonna e il padre, il mare e l’isola.

Felices culpae, però: non solo perché appartengono a quello che oggi si chiama «personal criticism», critica personale, ma anche perché ci dicono cosa significhi «vivere nella tempesta» – cioè, tout court, vivere. La tempesta, diceva Agostino Lombardo, è una «grande conchiglia», di quelle ritorte: dentro, sembra si senta il mare, sebbene non sia che illusione. Ma anche La tempesta è un’illusione, una magia della scrittura, una meraviglia piena di meraviglie, un’isola d’incanti, voci, musiche, di nuvole che si spalancano per far piovere ricchezze: qui, Ariele volteggia nell’aria e canta e vola alle Bermude per cogliere rugiada; qui, persino Calibano diventa poeta. Ma tutto, alla fine, svanisce: «l’edificio senza fondamenta / di questa visione…questo stesso vasto globo, sì, / e quello che contiene, tutto si dissolverà...Noi siamo della materia / di cui son fatti i sogni / e la nostra piccola vita / è circondata da un sonno».

Vivere nella tempesta: vivere accettando la vita, che è una serie di tempeste, ma anche una meraviglia e una grazia; stupire, e far proprie anche le cose dell’oscurità, come Prospero fa con Calibano; ascoltare gli altri e ascoltare poesia; pentirsi e perdonare, come Ariele spinge Prospero a fare; avere una seconda chance, riacquistare la libertà: salvarsi, rinascere. Chiedere misericordia, come all’inizio fanno i marinai sul punto di esser travolti dal fortunale e come nell’epilogo fa l’attore in veste di Prospero, coniugando in rima disperazione (despair) e preghiera (prayer).