Pubblichiamo la prima delle tre puntate attraverso le quali Nicola Gardini mostrerà che il latino è lingua, se non viva, vivente, perché ancora invita a risposte e interpretazioni attraverso la voce dei suoi grandi autori. Tre puntate che intendono anche offrire le conoscenze minime sul ruolo che questa lingua ha avuto nei secoli e che ha ancora. Un simile esperimento fu lanciato in queste pagine nel 2012 con la serie «Tutta la fisica in tre puntate» di Carlo Rovelli, poi riproposte nel best seller mondiale «Sette brevi lezioni di fisica» (Adelphi, 2014 e Penguin 2015, ora ai primi posti delle classifiche anglosassoni).
Lo studente liceale dovrebbe avere chiaro che il latino che gli viene insegnato è il latino letterario. Questo è una lingua artificiale (non più, a ogni modo, di quella di un Petrarca o di un Manzoni), tutto sommato uniforme, pur nella varietà dei temperamenti stilistici, che sono moltissimi, e nella durata millenaria della pratica scritta. Ma, è cosa risaputa, la scrittura è più conservatrice del parlato e permette fedeltà, quando non veri e propri restauri, che all’esecuzione orale sono negate.
Il latino diventa “classico” nell’ultimo periodo repubblicano, quando si sviluppa tutta una cultura della parola regolata e della norma, una vera e propria “ideologia grammaticale”, che mira a darsi, in un clima di complessità politica e nella ricerca di un’ultima autolegittimazione culturale, statuti e credito in rapporto e anche in tardiva concorrenza con la tradizione della grande oratoria greca. Caratteristiche precipue di questo “latino nuovo” sono la regolarità, l’uniformità ortografica, la chiarezza semantica e la complessità sintattica, la cosiddetta ipotassi, in cui il congiuntivo la fa da principe e gli utilizzi di questo sono dettati da criteri convenuti. Tali caratteristiche il latino letterario le mantiene per tutti i secoli a venire, distinguendosi nettamente sia dal cosiddetto “latino scolastico” del medioevo, brutto, sgraziato e stonato, sia dal “latino franco” della comunicazione internazionale, della burocrazia, della ricerca antiquaria, della chiesa, della giurisprudenza e della scienza (che corre parallelo e avrà ancora lunga vita). Quando Petrarca tuona contro il latino di Dante (che è appunto quello medievale) e pochi decenni dopo Lorenzo Valla, con accresciuta competenza, si impegna a restaurarne le raffinatezze, hanno in mente appunto il latino letterario, del quale è stato teorizzatore e simbolo vivente Cicerone. Con il nome di questo scrittore si è identificato per secoli e ancora si identifica, sia nelle scuole sia fuori, il concetto stesso di lingua latina, e un classicismo trans-storico, universale. Dalle sue numerose opere superstiti, che portano a livelli d’eccellenza il trattato retorico, il saggio filosofico, quello di linguistica, l’orazione giuridica e la lettera privata, si sono tratte prove di uso corretto, stilemi e forme di oratoria fin dall’antichità.
Il buon latino, nel progetto ciceroniano, richiede non semplicemente il rispetto dell’uso (consuetudo), che può essere fuorviante, ma l’ossequio a un metodo (ratio), a principi certi (Brutus 258). Ciò stabilito, Cicerone non affida mai il suo programma grammaticale all’applicazione oltranzistica del precetto, avendo sempre in cuore di promuovere un ideale di eleganza che metta d’accordo nella prassi storia della lingua, uso e regolarità; diciamo, un’adattabilità alle circostanze che pur non venga mai meno al perseguimento dell’eccellenza e alla soavità formale.
Mirare, anzitutto, alla chiarezza: “oratio […] lumen adhibere rebus debet”, “la lingua deve portare luce alle cose” (De oratore III, 50). E, pertanto, praticare la coerenza e la correttezza morfologica, evitare l’ambiguità, non coltivare l’eccesso metaforico, non prolungare o spezzare le frasi a capriccio e bandire l’arcaismo e l’espressione grezza, quella rozzezza campagnola (la cosiddetta rusticitas) che in passato era salutata come segno di distinzione e cifra della tradizione. L’ortodossia linguistica, così, è promossa a prerogativa cittadina, urbanitas, appunto, perché la capitale dell’impero (Urbs) è adesso anche il luogo in cui si elabora la lingua perenne.
Cicerone pone al cuore della sua teoria linguistica la capacità lessicale, alla quale istruirsi fin dalla fanciullezza attraverso lo studio della letteratura e la pratica quotidiana: scegliere le parole più adatte all’argomento e ai tempi (che sono poi non parole di un vocabolario speciale, ma le parole di tutti, retori o persone qualunque) e combinarle secondo correttezza sintattica e convenienza ritmica. La musicalità è data per essenziale. Le parole devono seguire un flusso melodico, che non ingeneri sazietà e dia un’impressione di ordine artistico, libero e controllato a un tempo. Vorrei attirare l’attenzione del lettore su una coincidenza che permette di considerare il ritmo (numerus in latino) ben più che un accorgimento eufonico. Nel sesto libro del De re publica, il trattato di filosofia politica che Cicerone compose tra il 54 e il 51 a. C., Scipione Emiliano, il distruttore di Cartagine, sogna di incontrare in cielo l’antenato Africano, vincitore della seconda guerra punica. Dialogando con lui, scopre la struttura dell’universo, la piccolezza della terra, l’immortalità dell’anima e la vanità della gloria. Si tratta di uno dei passi più alti di tutta la letteratura latina, che grande fortuna ebbe nella tarda antichità e nel medioevo (è, per esempio, tra le fonti del paradiso dantesco). Nel De oratore Cicerone descrive gli aspetti del ritmo con lo stesso vocabolario con cui nel sogno di Scipione descrive l’armonia sonora dei corpi celesti. Dunque, è come se nella frase, attraverso un regolato alternarsi di durate musicali, si ripetesse, anzi si dovesse ripetere niente meno che l’ordine stesso del cosmo.
Ma il latino ciceroniano non è solo artificio linguistico: è anche – e questo ne fa il tesoro che è – il mezzo attraverso cui si è formato tutto un sistema di valori, tutta una riflessione sull’essere umano, che ha avuto la capacità di risuonare per secoli. In quel latino vizi, virtù e doveri trovano una loro definizione e – fatto essenziale – l’eccellenza linguistica è data come espressione di un’eccellenza spirituale. In pratica, non si dà superiorità etica se non nella forma di discorso perfetto. Perché parlare bene è un sapere da cui discendono non solo i bei discorsi, ma l’organizzazione stessa del mondo civile: costumi, leggi, governi. Parlare bene è una filosofia; è pratica di giustizia e creazione di felicità. Parlare (o scrivere) bene è essere buono; è difendere i valori più alti della comunità; la libertà stessa. E Cicerone in persona l’ha dimostrato mettendo la sua eloquenza al servizio della società minacciata dalla tirannide. Possiamo dire che la lingua latina assurge a tanta eccellenza grammaticale nella pratica e nella riflessione di Cicerone, che fu nemico giurato di qualunque dispotismo ed eroico portavoce del senato, proprio in quanto strumento di libertà, libertas, una delle parole che gli erano più care.
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