Cultura

Donne felici nell’inutile strage

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LETTERATURA

Donne felici nell’inutile strage

Sono i nessi causali e finali che ci permettono di attribuire retrospettivamente un significato alle nostre vite. Per questo uno dei modi più semplici (ed efficaci) con cui un narratore può persuadere i lettori dell’insensatezza di un avvenimento senza prendere la parola lui stesso è isolarlo completamente dalle azioni che lo precedono e lo seguono. Lo si vede nel caso delle guerre: basta mettere in moto il racconto con una sequenza narrativa più estesa (l’uccisione di un granduca, una vetta da conquistare) perché la violenza diventi di colpo comprensibile, poi accettabile, infine persino ragionevole. Mentre, non appena quel legame narrativo si spezza, gli argomenti apparentemente più solidi (la gloria, l’onore, il sacrificio…) si sciolgono come neve al sole. Lo sapeva bene Bertolt Brecht, che ne L’abicì della guerra costruì la sua propaganda antimilitarista attorno a una serie di fotografie tremende non tanto o non solo per la crudezza delle scene rappresentate, ma per la loro natura di frammenti non riconducibili a una totalità di senso. Senza un prima e senza un dopo: dunque senza un perché.

L’universo chiuso di un ospedale militare italiano nei mesi subito prima di Caporetto offre un’ambientazione perfetta per generare un effetto simile, soprattutto, poi, se la storia è raccontata dalla prospettiva di due adolescenti partite volontarie come infermiere e assai meno informate di quanto avviene attorno a loro dei dottori e degli ufficiali al fianco dei quali lavorano. È quello che succede nell’ultimo romanzo di Elisabetta Rasy, Le regole del fuoco: dove carichi di feriti e di moribondi si riversano ogni giorno nelle corsie d’emergenza per morire prima che le due ragazze (ma anche i lettori) possano sapere alcunché sul loro conto.

In genere, in questi casi, è la retorica che si premura di tenere assieme i brandelli di vite (e di storie potenziali). Qui, invece, ogni discorso sulla patria è negato in partenza: le due infermiere sono al fronte per sfuggire a una situazione familiare asfissiante (Maria Rosa, la napoletana) o per dimostrare al padre la forza della propria vocazione per la medicina (Eugenia, la lombarda). Rimane allora solo l’insensatezza dei corpi mutilati e ridotti a loro volta, in senso letterale, a monconi e frammenti.

La storia de Le regole del fuoco ci arriva attraverso una catena di passaggi di testimone, tutti al femminile: Maria Rosa è presentata come un’amica d’infanzia della nonna della narratrice e tutto il romanzo è scritto in forma di monologo, come la stessa Maria Rosa avrebbe potuto raccontarlo alla sua Eugenia. Per Rasy, evidentemente, il fascino della vicenda è anche legato alla sfida di trovare una lingua adatta a far parlare il suo personaggio (nel complesso si tratterà di una lingua «di compromesso»: nettamente distinta da quella, assai più sobria, della cornice del racconto, ma anche restia ad imboccare fino in fondo la strada della mimesi di quello che avrebbe potuto essere il modo di esprimersi della adolescente Maria Rosa, anche perché la ragazza è chiamata a rievocare la sua esperienza da un punto immaginario e senza tempo della sua lunga vita, e anzi probabilmente da più di uno).

L’ambientazione ospedaliera, con la sua ordinaria violenza, ha dunque nel romanzo una seconda funzione essenziale: mettere sotto tensione i codici espressivi di Maria Rosa, educata a una miscela di eccitazione lirica e rigorosa eufemizzazione. Per raccontare quello che vede, una signorina dell’aristocrazia del primo Novecento semplicemente non possiede le parole adatte. E questo non dipende solo dai corpi straziati. Perché, come Maria Rosa riesce a dirci solo dopo la scoperta della sua sessualità, i corpi maschili dei convalescenti sono spesso completamente nudi, con i genitali esposti alla vista delle infermiere.

I feriti, certo, sono completamente asessuati. Le amputazioni di cui si parla a ritmo continuo appaiono altrettante evirazioni simboliche, al punto che i pazienti imparano presto a chiamare «mamma» le infermiere più giovani di loro. E non è strano che l’unico personaggio maschile di un certo rilievo nella storia sia un fotografo, spontaneamente vocato a una disposizione tutta voyeuristica verso il mondo.

In una ridefinizione dei ruoli, in quanto integri, i corpi femminili possono rivelarsi persino più virili dei corpi degli uomini. La pienezza però è altrettanto difficile da raccontare per chi ha a disposizione solo (o quasi solo) la lingua lirica di Maria Rosa. Lei ci prova, ma c’è qualcosa che il languido romanticismo appreso su qualche romanzo francese negli anni del suo apprendistato alla vita non è in grado di mettere a fuoco e di chiamare con parole esatte («ho sentito dei brividi che mi hanno stordita», «quello strano scampanio interno che voleva dire che il corpo era sazio dell’amore»). Anche sul piacere (soprattutto sul piacere) incombe infatti l’autocensura. I veri momenti di trasporto di Maria Rosa sono affidati così a qualche leggera sgrammaticatura che – non a caso – ha sempre a che fare con il pronome di seconda persona singolare, in una prosa per il resto altamente letteraria («eri te», «a te ti toccavo»).

Soprattutto nella seconda parte, Elisabetta Rasy non rinuncia a sfruttare le potenzialità narrative di quelle che giù negli anni Venti furono individuate dai narratori come le due massime peripezie della guerra: Caporetto e l’epidemia di febbre spagnola. Non è questo, tuttavia, che interessa all’autrice. La terribile verità (politica) de Le regole del fuoco è che il suicidio dell’Europa nei campi di battaglia del ’14-18 ha offerto a milioni di donne un’occasione senza precedenti di affrancamento dalla tutela maschile di padri mariti fratelli. Gli storici contemporanei non esitano a raccontarci gli effetti liberatori della Grande guerra (a cominciare dall’entrata in massa delle donne nel mondo del lavoro); Elisabetta Rasy si spinge però parecchio oltre, facendoci intravedere che è sull’«inutile strage» che si fonda l’unica possibilità di essere felici delle due protagoniste (c’è una precisa continuità tra la Rasy de Le regole del fuoco e quella che nel 1976 scriveva la prefazione a Il corpo lesbico di Monique Wittig). La carneficina diurna costituisce infatti il presupposto della felicità notturna di Maria Rosa ed Eugenia. E persino la guerra trova così un senso: seppure assai diverso da quello che le attribuiva la propaganda nazionalista.

Naturalmente, per giungere alla libertà sono stati necessari anche innumerevoli sacrifici. Ed è in questa chiave che va letta la beve nota finale, dove l’autrice rivolge un «pensiero riconoscente» alle «donne in guerra» di allora. Non la riconoscenza dell’italiana alle combattenti per la patria, ovviamente. Ma la riconoscenza della femminista di oggi alle sue progenitrici: ancora inconsapevoli, e tanto più, per questo, coraggiose.

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