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Calvino semplice nei suoi segreti

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TERZA PAGINA

Calvino semplice nei suoi segreti

Con tono sommesso, in equilibrio tra conversazione e solitudine, al pari degli antichi moralisti, Carlo Ossola in questo saggio rileva come ultimamente il discorso critico su Calvino si atteggi a un probabilismo o addirittura «lassismo ermeneutico» che riduce l’obiettiva forza dello scrittore a nudo e debolissimo emblema postmoderno. D’altra parte, nelle mani di una certa critica strutturalista, fin dai tempi del Castello dei destini incrociati e di Se una notte d’inverno un viaggiatore, a Calvino era toccato di assurgere a campione d’un romanzo combinatorio e freddo che di nouveau non avrebbe avuto che la coincidenza coi francesi.

Anch’io non credo che il segreto, el punto ciego (come direbbe Javier Cercas) dei libri di Calvino sia il centro geometrico di un labirinto finito e rappresentabile; o il culmine di un meta-discorso; o una resipiscenza della cibernetica. Credo al contrario che sia qualcosa di non riscontrabile nella mera architettura del discorso romanzesco, né sulla sua superficie visibile o nella diacronia dei fatti narrati. La narrazione stessa, in Calvino, assomiglia a una domanda filosofica (quel solo, invadente, dirompente “piccolo pensiero” di cui parla Wittgenstein) e segue un principio d’astrazione che assolutamente stride e nega addirittura i principia prima del romanzo tradizionale. Così allo stesso modo, da Marcovaldo a Palomar, il personaggio è innanzitutto il perno di un ragionamento che lima i contorni del racconto stesso.

Chi è Palomar se non una specie di acronico viator, leopardiano o montaliano, errante in un deserto o in un’aria di vetro, la cui perplessità radicale e metafisica ha a che fare innanzitutto con le cose che non si sanno e non si vedono? Ricordando proprio il Montale degli Ossi, essenziale per Calvino («è l’unico filosofo che io sia riuscito a seguire sistematicamente, in gioventù»), Ossola giunge a una conclusione anche più radicale: «la lunga parabola di rigore e di sapienza l’aveva portato là dove il possibile dell’ars combinatoria, dell’Oulipo, dell’artificio, è abbandonato per un ben più temibile viaggio, quello verso il segreto, ch’egli, senza voltarsi, come Palomar, ha intrapreso e additato».

Studioso di mistici e angelologi dell’età moderna, dal Petrucci al Segneri, cultore e indagatore di linguaggi di confine, Ossola non dimentica qui un motto illuminante di Roland Barthes, che Calvino stesso pone quasi in esergo al suo Re in ascolto: «io ascolto vuol dire anche ascoltami»: detto altrimenti, lo spazio in cui si propaga il mio racconto è anche lo spazio intersoggettivo a cui io rivolgo indefinitamente domande sul significato della mia stessa vita. La vecchia art of fiction, soprattutto quando si realizzi non grazie all’onniscienza del narratore, ma grazie invece alla sua perfetta ignoranza, diventa una nuovissima e ibrida ricerca di quel di più che formalmente interessa il poeta o il filosofo e, come in Palomar, si esprime innanzitutto nella forma dell’interrogazione: che cos’è un coccodrillo? Che cosa aspetta o ha smesso di aspettare? In quale tempo è immerso? È una smisurata pazienza, la sua, o una disperazione senza fine? E io, che cosa sono? È vero che il (mio) linguaggio è il punto di arrivo di tutto l’esistente? Sono davvero miei gli occhi che guardano?

All’incrocio di io ascolto e ascoltami, Calvino, nella lettura di Ossola, rende assolutamente contigui e indissolubili fisica e metafisica, fino alla visione ultima, tra il Petrarca del Triumphus Eternitatis e il Leopardi del Cantico del gallo silvestre, di un tempo logorato ed estinto in «un cielo vuoto, quando l’ultimo supporto materiale della memoria del vivere si sarà degradato in una vampa di calore o nel gelo d’un ordine immobile». Anche la direzione favolistica e quella sperimentale e razionalistica piegano necessariamente verso un orizzonte in cui contano la riflessione e la meditazione su ciò che non si vede e non è detto. Il ludus stesso di Calvino, quello degli Antenati ad esempio, in apparenza felice e insubordinato, e molto liberamente vicino al puro divertimento dei Fiori blu di Queneau, è il gioco di un grande moralista. Il cosiddetto «stile semplice» e la celebre «trasparenza» del dettato non sono d’altra parte che il modo perfetto, il solo mezzo che Calvino sceglie per rappresentare il male e il bene della vita.

Tra molte pagine esemplari, Ossola legge a questo proposito, con grande acume e una certa commozione (da La giornata di uno scrutatore), quella dedicata all’ «ora perfetta» nella città del dolore, il Cottolengo: «Donne nane passavano in cortile spingendo una carriola di fascine. Il carico pesava. Venne un’altra, grande come una gigantessa, e lo spinse, quasi di corsa, e rise, e tutte risero... Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo in cui in ogni città c’è la Città». Che si tratti della città perfetta, o ideale, rinascimentale (dall’urbs alla civitas per Leonardo Bruni) o addirittura della città cui, secondo Agostino e Petrarca, tendono i passi agitati e stremati di tutti gli uomini: quella coelestis urbs Jerusalem che Calvino col suo cannocchiale non vede, ma che, secondo un postulato della sua stessa logica, non è impossibile né improbabile che ci sia?

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