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Lungotevere Kentridge

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ARTE

Lungotevere Kentridge

Ora che si è spenta anche l’ultima nota delle musiche e delle azioni teatrali con cui William Kentridge, in una gran “festa di popolo”, ha voluto inaugurare la sua installazione Triumphs and Laments. Un progetto per Roma sui muraglioni del Tevere, ecco che questa sua opera, colossale ma volutamente impermanente, epica ma per nulla declamatoria, può tornare a raccontare a ognuno le tante storie di cui è portatrice. A «sussurrarle» anzi, come ha scritto di recente Salvatore Settis, ponendo l’accento sull’essenza più autentica di questo intervento, per il quale il rischio-retorica era in agguato. Non con Kentridge però, che ha il dono raro di creare sempre nuove epopee (sulla sua Africa come, qui, sulla storia ultra-sfruttata di Roma) senza cadere nell’enfasi né nella magniloquenza, lavorando da un lato sul versante più profondamente umano di ogni narrazione -e portando così a galla sentimenti e vissuti universali, condivisi da ognuno–, dall’altro insaporendo spesso il suo racconto con un tocco di salutare ironia.

La festa inaugurale, che si è tenuta il 21 aprile (il “Natale di Roma”, s’imparava molto tempo fa alle elementari) e il giorno successivo, era per Kentridge parte vitale dell’opera: lo erano le musiche, composte dall’amico storico Philip Miller, sudafricano come lui, e lo erano la danza di ombre e la «processione concettuale» (così l’ha definita) formata dai due cortei musicanti dei Trionfi e dei Lamenti, partiti rispettivamente da Ponte Sisto e da Ponte Mazzini inalberando, come fossero insegne di legioni romane, i cut out, cioè le “mascherine” con cui l’immenso fregio è stato realizzato. E incontrandosi poi al centro della banchina, dove i loro suoni si sono fusi in un unico, grandioso flusso musicale.

Partito molti anni fa da un’idea di Kristin Jones, il progetto è stato realizzato solo ora, grazie a Tevereterno e a un concorso corale di forze, con il quale si sono raccolti o fondi (privati) e si sono superate tutte le difficoltà, specie quelle «mastodontiche» (Kentridge l’ha detto in italiano) per ottenere i permessi necessari a tradurlo in realtà.

Che il cammino sia stato duro non stupisce. Si trattava, infatti, di comporre un fregio lungo ben mezzo chilometro e alto una decina di metri sull’argine del Tevere che corre ai piedi della Farnesina (e di Raffaello), ricavandolo, in negativo, da una pulitura selettiva della patina color nerofumo lasciata dall’inquinamento, asportata con getti d’acqua a pressione nelle zone lasciate libere dai cut out ritagliati nel cartone grazie a un programma informatico che ha anche ingigantito i disegni di Kentridge. Un progetto monumentale, certo, ma tutt’altro che invasivo: anzi, qualcosa che l’autore ha voluto fosse effimero, cancellato nel giro di quattro-cinque anni dallo smog, già al lavoro del resto su quelle figure chiare che appaiono come ombre ritornanti dal passato (ma anche dal presente), da cui l’artista le ha evocate.

Nulla, qui, è in ordine cronologico: così il cadavere di Remo si rispecchia in quello di Pasolini; il corpo di Aldo Moro, nella Renault, si fonde con l’Estasi di Santa Teresa di Bernini, la Lupa si confronta con i Bersaglieri di Porta Pia, il monumento a Marco Aurelio con quello a Giordano Bruno, e un corteo trionfale di legionari (dai Trionfi di Cesare di Mantegna, ora ad Hampton Court) esibisce a sorpresa fra le insegne una macchina per cucire. E, con un altro guizzo d’ironia, la scena arcinota del bacio nella Fontana di Trevi di Anita Ekberg e Mastroianni, nella Dolce Vita, si trasferisce in una vasca da bagno, sotto una doccia mestamente gocciolante.

Se per l’antichità classica le sue fonti sono state la Colonna Traiana (di lì arriva, tra le altre, la figura magnifica della Vittoria alata: «avrei voluto srotolare il suo fregio e stenderlo in piano», ha detto Kentridge) e i Trionfi di Mantegna, per il mondo moderno l’artista ha attinto all’immaginario filmico (c’è anche Anna Magnani in Roma città aperta di Rossellini) e a quello dei reportage fotografici, arrivando fino a noi, con le donne nordafricane che piangono i loro morti nel porto di Lampedusa, e le barchette su cui tanti disperati affrontano il Mediterraneo. Trionfi e tragedie, inni per le vittorie e lamenti per i lutti collettivi: la vita, in una parola. Ma vista attraverso la lente spettacolare di Roma.

I passaggi per arrivare a questo esito sono stati tanti e la mostra curata da Federica Pirani e Claudio Crescentini al Macro (dove sarà visibile fino al 2 ottobre) li illustra al meglio, esibendo in una delle Project Room le prime, minuscole sequenze di figurette ritagliate nella carta nera da Kentridge, ancora a Johannesburg; poi i disegni a carboncino (esposti questi alla Biennale di Venezia) in cui le ha tradotte e, di qui, i disegni a inchiostro, dove i grigi si annullano per permetterne il trasferimento negli stencil utilizzati per il fregio monumentale. Nell’altro spazio, il gigantesco cut out del corpo di Pasolini, allestito in modo del tutto inedito, si palesa (pur non essendolo) come fosse un gigantesco inchiostro a parete, con un gioco ottico di grande potenza. Quanto al Maxxi, ha messo in evidenzia le opere di Kentridge di sua proprietà.

A Milano, poi, nella galleria di Lia Rumma (che ha supportato l’operazione insieme alle gallerie di Marian Goodman, ad Alitalia Etihad e altri sponsor) va in scena fino a fine maggio una mostra emozionante che, insieme a una serie di opere tratte dall’immaginario di Triumphs and Laments, presenta la videoinstallazione di Kentridge More Sweetly Play the Dance, proposta in anteprima nel 2015 all’Eye Film Institute di Amsterdam. Qui scorre una lunghissima processione di sagome, nelle quali, a sorpresa, per la prima volta compare qualche tocco di colore e qualche accenno di tridimensionalità: danzatori e migranti, donne e musicisti, dimostranti e lavoratori africani, che si muovono al ritmo di una musica struggente e gioiosa al tempo stesso, raccontando l’Africa, le sue tragedie e la sua capacità di vitale resilienza con lo sguardo empatico di chi quella realtà la conosce da dentro. E dunque, con un accento ben più convincente (e utile alla causa) di tanti discorsi di pensosi intellettuali di casa nostra.

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