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La fabbrica delle vocazioni

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La fabbrica delle vocazioni

«Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore alla vita. Esso può prendere diverse forme, e a volte un ragazzo svogliato, solitario e schivo non è senza amore per la vita, né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato di attesa, intento a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cos’è la vocazione d’un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita?». Non ho trovato parole migliori di queste per iniziare. Che sono racchiuse in un breve scritto pubblicato la prima volta su «Nuovi Argomenti» nel 1960. Le piccole virtù di Natalia Ginzburg – di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita – sono un saggio senza tempo. Dieci paginette o poco più, ma che una volta lette è difficile dimenticare. Dove la ricerca di una vocazione intesa come «passione ardente ed esclusiva», come «vera salute e ricchezza dell’uomo», che nulla ha a che vedere con il successo e il denaro, diventa il migliore augurio che un padre e una madre possano fare pensando al futuro dei propri figli. Un’idea di vocazione interiore, inscritta in un universo integralmente laico, in cui c’è la piena libertà di scegliere, e dove il genitore a un certo punto sa quello che deve fare: attendere, «in silenzio e un poco in disparte», che la vocazione del figlio «si svegli, e prenda corpo».

Anche al centro dell’ultimo libro di Adriano Prosperi c’è il tema della vocazione, ma il modo in cui è declinato va in una direzione diametralmente opposta a quella indicata dalla Ginzburg. Più che l’educazione alla libertà di pensare (e di sbagliare) qui è l’educazione all’obbedienza il perno attorno al quale ruota l’intera storia. «L’essere gesuita fu una scelta di appartenenza costruita e tutelata in nome di una chiamata che strappava i figli alla famiglia terrena e non tollerava tradimenti». Sono queste le fondamenta del nuovo Ordine che fin dal suo nascere diventò il più influente e potente della Chiesa cattolica. E Prosperi le indaga a partire da un accurato esame delle autobiografie che venivano richieste dai superiori a numerosi membri della Compagnia.
Dalla seconda metà del Cinquecento raccontare i particolari della propria vocazione diventò uno degli strumenti impiegati per rafforzare la memoria e la storia dell’Ordine come corpo scelto e guidato da Dio. Nessun altro ordine religioso ha dedicato tanta attenzione ed energia a raccogliere e a diffondere le testimonianze sul come e perché molti giovani decidessero all’improvviso di convertirsi e cambiare radicalmente il loro stile di vita. Alla base di questa grande impresa c’era l’esigenza di costituire un corpo «dello stesso colore», come aveva scritto Ignazio di Loyola nelle Costituzioni, «un gruppo umano fuso perfettamente come un solo blocco statuario e periodicamente richiamato alla sua prima vocazione». A maggior gloria di Dio, come recitava il suo motto.

Autobiografie imposte dall’alto, come spiega Prosperi, in cui ciò che contava non era ripercorrere tutte le vicende della propria vita, ma narrare quel preciso e cruciale istante in cui era stato percepito l’invito del Signore a seguirlo. Una storia collettiva dunque, dove ciascuno aveva il compito di ricordare a sé e agli altri quel punto di frattura tra passato e futuro, tra una vita di peccato e una nuova vita segnata dall’assoluta obbedienza a Dio. E che si materializzò col mettere per iscritto il significato del passaggio a un’identità nuova. Come, con i suoi strumenti, fece Caravaggio, quando gli fu richiesto di dipingere la Vocazione di San Matteo per la Cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi a Roma. Il quadro, che è riprodotto sulla copertina del libro, raffigura infatti la vocazione come una lama di luce che investe la persona “chiamata” e «trasforma immediatamente in apostolo il gabelliere intento a raccogliere il danaro».

Naturalmente quell’invito non era rivolto a tutti, perché non tutti avevano la forza di accoglierlo. Era un invito speciale per il raggiungimento della perfezione sia della propria anima sia dell’Ordine a cui appartenevano, un corpo creato per intervento divino, e quindi come tale provvidenziale per la salvezza della stessa Chiesa. Insomma una milizia combattente per Cristo che doveva ramificarsi sull’intera faccia del pianeta e che trovava negli Esercizi spirituali del suo fondatore non tanto un libro di devozione o di propaganda religiosa quanto un vero e proprio manuale operativo, fisico e spirituale insieme, come poteva esserlo un testo di strategia militare. E non è certo un caso che quando il giovane principe Federico Cesi decise di creare l’Accademia dei Lincei, nella definizione della sua organizzazione (i collegi) e dei regolamenti per i suoi affiliati (le costituzioni) si ispirasse proprio al modello vincente della Compagnia. Anche i Lincei furono e si percepirono come una “militia”, sebbene vocata al progresso della scienza, all’«acquisto delle filosofiche e matematiche scienze».

Inventare la perfezione. Come trasmetterla ai nuovi membri delle generazioni future. Di questo si trattava. E da questo punto di vista le pagine dedicate al gesuita spagnolo Girolamo Nadal sono esemplari. Fu lui, nel 1553, insieme al confratello Juan Alonso de Polenco, a sollecitare Ignazio a raccontare l’esperienza spirituale della sua vita. E fu ancora lui, negli anni 1561-62, a correre in lungo e in largo per l’Europa per spiegare a chi voleva farsi gesuita quali fossero le ragioni profonde di una simile scelta, tenendo prediche, esponendo le Costituzioni, interrogando novizi e padri provinciali, distribuendo questionari tra tutti i membri della Compagnia, rafforzando in loro fiducia ed entusiasmo. Si trattò – scrive Prosperi – «di un vasto censimento, una vera e prova capitale per un organismo giovane e in crescita rapida, esposto al pericolo della dispersione ma ancor più a quello dei dubbi e delle crisi individuali».

Un’ultima annotazione prima di chiudere. Probabilmente questo libro non esisterebbe se chi lo ha scritto, per sua stessa ammissione, non avesse letto il saggio di Marco Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956) (Feltrinelli), in cui sono messe in evidenza le strette somiglianze tra i metodi educativi dei Gesuiti e le scuole di formazione politica istituite dal Partito comunista nell’Italia degli anni Cinquanta, «tra le autobiografie orali e scritte dei militanti comunisti e le domande previste nell’“Esame generale” a cui la Compagnia sottoponeva i candidati». Simili debiti di riconoscenza non rappresentano una novità. Ma spesso le fonti d’ispirazione vengono ricordate in modo fugace nella pagina dei ringraziamenti oppure finiscono per essere seppellite in qualche sperduta nota per iniziati. Dichiararlo nelle pagine di apertura è la cifra di uno stile, di un modo di fare storia cui siamo sempre meno abituati.

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Adriano Prosperi, La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento , Einaudi, Torino, pagg. XIX, 250, € 30