Cultura

Dossier Arrivano i fondi e le Borse diventano popolari (ma non basta)

  • Abbonati
  • Accedi
Dossier | N. 19 articoliI 150 anni del Sole 24 Ore

Arrivano i fondi e le Borse diventano popolari (ma non basta)

«Ecco l’Italia, l’ultima venuta delle nostre sei potenze europee: cosa manca a questa antica e giovine Italia per rappresentare nel mondo la parte di cui è degna pel suo passato, per la sua energia, per il suo genio? Un gran mercato finanziario». Con queste parole l’economista francese Paul Leroy Beulieu in un articolo sul Sole del 1897 sosteneva la necessità dello sviluppo del mercato borsistico come condizione sine qua non per lo sviluppo industriale del Paese.

Quasi un secolo dopo sempre sul Sole si legge: «L’avvio della ripresa economica e il bisogno di nuovi investimenti hanno accresciuto in tutto il mondo la necessità per le imprese di raccogliere capitale di rischio. In Italia questo problema si pone con un’evidenza drammatica: il sistema industriale versa infatti in un grave stato di sottocapitalizzazione che incontra nell’inefficienza del mercato dei capitali, derivata da molte cause le cui analisi qui tralascio, un’obiettiva difficoltà ad essere superato».

L’articolo è di Nino Andreatta. Siamo nel 1983, ma con piccoli aggiustamenti (ad esempio rimpiazzando sistema industriale con sistema bancario), potrebbe essere pubblicato oggi. Sarebbe altrettanto attuale quanto 33 anni fa.

Il 1983 è un anno importante: è l’anno in cui si approva la legge sui fondi comuni e questi iniziano a svilupparsi e a diffondersi, arricchendo le opportunità di diversificazione e rendendo l’accesso alla Borsa potenzialmente più facile e meno costoso per un platea molto più ampia di cittadini. Era una delle condizioni su cui insisteva Andreatta – far sviluppare il mercato secondario, renderlo spesso e liquido – per consentire lo sviluppo del primario abbassando così il premio che altrimenti gli emittenti dovrebbero pagare per attrarre sottoscrittori, incoraggiando così questi ultimi a quotarsi.

Passano i decenni ma la configurazione del mercato finanziario italiano sembra restare immutata: Borsa piccola, avversione all’investimento azionario, dal lato della domanda e dal lato dell’offerta. I fondi si sono sviluppati con vicende alterne e non sono mai riusciti a diffondere tra i risparmiatori l’investimento azionario. Negli anni più recenti i sottoscrittori di fondi sono circa 6 milioni, solo il 13% della popolazione adulta. Ma di questi solo una piccola frazione (meno del 10%) concentra l’investimento in fondi azionari o in fondi con una componente azionaria (bilanciati).

Identificare la ragione non è facile. I risparmiatori diffidano della Borsa e, dove c’è diffidenza, il mercato non si sviluppa. I fondi comuni non nascono indipendenti, ma la maggior parte promana dalle banche e spesso hanno agito in conflitto d’interesse. L’interesse delle banche proprietarie e distributrici sono le commissioni; quello dei fondi non è la sottrazione del risparmio dall’intermediazione bancaria.

Inoltre, non basterebbe un’industria dei fondi comuni anche indipendenti per promuovere la diffusione dell’investimento azionario. Occorrono anche grossi fondi pensione che insegnino ai risparmiatori come far buon uso della Borsa: accantonando risparmi su orizzonti lunghi per dar tempo ai dividendi di cumularsi, cancellando così le fluttuazioni dei corsi azionari che altrimenti dominano il valore dell’investimento su archi di pochi anni. Su questo, la riforma del sistema pensionistico ha fallito.

Si può ancora rimediare, se si vuole, aggiungendo un altro tassello che, oltre ad arricchire l’architettura del sistema pensionistico, contribuirà a sviluppare il mercato azionario.

© Riproduzione riservata