Il Sole, sin dai suoi primi lustri di vita, si schiera per una energica ripresa dell'eredità dei Lumi ; mentre è in discussione l'abolizione della pena di morte dibattuta nel Senato del Regno, tornata del 20 febbraio 1875, nel Diario del « Sole » di quel giorno si legge, a proposito di una raccolta di firme volta a chiedere l'abolizione della pena capitale: «Sarebbe stato veramente doloroso che nella patria di Beccaria […] non sorgesse una protesta contro la mannaia del carnefice ». Coerentemente, quando nel 1888, nel codice penale Zanardelli, essa verrà finalmente espunta, il Diario ancora dell' 11-12 giugno saluterà il provvedimento come « una grande opera di civiltà » (come ricordano due storici della vita del nostro giornale: Piero Bairati e Salvatore Carrubba, La trasparenza difficile: storia di due giornali economici, «Il Sole» e «24 Ore», Palermo, Sellerio, 1990).
Quella ferma posizione è tanto più significativa nella tormentata storia italiana del XX secolo, visto che la pena di morte venne reintrodotta da Mussolini nel 1926 per coloro che avessero attentato alla vita o alla libertà della famiglia reale o del capo del governo; disposizioni aggravate dal Codice Rocco del 1931 che estese anzi il numero dei reati punibili con la pena di morte. Essa venne definitivamente abolita nell'agosto del 1944, dopo la caduta del fascismo, ma mantenuta per gravissimi reati comuni, sì che le ultime esecuzioni ebbero luogo il 4 e 5 marzo 1947, a Torino e a La Spezia. Soltanto con l'emanazione della Costituzione nel 1948, la pena di morte venne definitivamente abolita per tutti i reati commessi in tempo di pace. Poco dopo i fatti di Torino, nella seduta dell'Assemblea Costiituente del 26 marzo 1947, l'on. Giuseppe Bettiol ebbe parole vibranti contro il «lugubre argomento» della pena di morte (già reintrodotta «tre o quattro volte» da quando era stata abolita nel 1944) , ribadendo il dettato che stava per essere approvato e cioè che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».
Questa sapienza civile risale certo al trattato Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, 1764; nel cap. XII, Fine delle pene, egli acutamente osservava: «il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso», bensì quello di serbare sempre le proporzioni tra colpa e pena, trovando «la meno tormentosa sul corpo del reo». E concludeva richiamando (cap. XVI) l'esecranda tortura «una crudeltà consacrata dall'uso» e la troppo ostentata finalità politica delle pene: «Quale è il fine politico delle pene? Il terrore degli altri uomini». Questi paragrafi del trattato di Beccaria furono ben presenti a Mario Cuomo, il compianto governatore dello Stato di New York (1932-2015), quando dettò una vibrante prefazione all'edizione americana del trattato (New York 1997), testimonianza richiamata poi nei lavori del Comitato contro la pena di morte del Senato italiano nella XIII Legislatura : si veda in particolare, nella Relazione finale, il paragrafo Un sistema malato: tassi di errore nei casi di condanna alla pena capitale negli Stati Uniti d'America 1973-1995, Roma 2001.
Occorre infatti, nel tempo presente, non tanto compiacerci che – a differenza di Paesi che si vantano essere il faro della democrazia – la pena di morte non venga più comminata in Italia; bensì dolerci che la tortura, più subdolamente, ancora sia tollerata o occultata – allorquando sia praticata da istituzioni che dovrebbero rappresentare la Legge – poiché anche il reo ha diritto alla dignità di persona; e gli «spasimi della tortura», scriveva Beccaria, sono aberranti poiché «con questo metodo si toglierà l'infamia dando l'infamia». Nessuna società può essere giusta, né consorzio civile crescere, «dando l'infamia»; così all'oggi arriva il Diario del «Sole» del 1875.
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