Non era affatto una «Italietta» quella in cui «Il Sole» si muoveva dopo che con la conquista di Roma si era concluso il cammino verso il compimento dell'unità nazionale. La Milano in cui aveva sede il giornale era sempre più a tutti gli effetti un pezzo d'Europa. I suoi fondatori, Gaetano Semenza prima e Piero Bragioli Bellini poi, avevano avuto importanti esperienze a Londra. Non l'avevano dimenticate e del resto quel respiro europeo, e specialmente «british», era una caratteristica di tanti personaggi che intervennero a partire dagli anni Settanta, neppur troppo dietro le quinte, nell'avventura di questo quotidiano, che confermava la sua collocazione a metà fra l'economico e il politico. Basti pensare a due figure come quelle di Alessandro Rossi e Luigi Luzzati. Era il mondo che scommetteva sul progresso economico e civile del nuovo regno, nato dal «risorgimento» a cui essi avevano partecipato.
Non era una posizione facile in un paese sulla cui ritrovata unità politica pendeva tanta incredulità: troppi i problemi da affrontare, poche le risorse disponibili. Di questo avrebbe dovuto occuparsi la politica trovando la forza per gestire quella ambizione di iscriversi fra le potenze dell'epoca, soprattutto dopo la conquista di Roma. In quel contesto si poneva il problema di dare un senso nuovo alla classe politica, perché secondo l'interpretazione allora corrente avrebbero dovuto affievolirsi se non venire meno le tradizionali divisioni fra la Destra e la Sinistra. Si pensava che il dissidio di fondo che le divideva fosse stato il modo di stabilirsi a Roma: con i negoziati diplomatici secondo la prima, con l'opera dell'iniziativa diretta anche rivoluzionaria nel pensiero della seconda. Adesso però quella meta era stata raggiunta con le modalità che aveva messo a disposizione la turbolenza internazionale legata alla guerra franco-prussiana del 1870. Dunque politica nuova, che poteva ormai lasciarsi alle spalle quel bipolarismo che derivava dalle vecchie questioni risorgimentali, cioè da vicende ormai considerate concluse. Qui si pose il problema del rinnovamento della vita politica italiana che andava «trasformata» come insegnava la scienza positivista dell'epoca.
La trasformazione però finì ben presto nel «trasformismo», cioè nella ricollocazione utilitaristica che troppi uomini politici perseguivano per salvare le loro fortune personali. Il Sole fu assai precoce nel comprendere la spirale che minacciava la politica italiana nel nuovo contesto. Da un lato c'era la necessità di andare oltre una gestione della sfera pubblica che per paura del crollo del sistema sotto la spinta delle difficoltà presenti si affidava alla repressione di ogni voce dissenziente e di ogni moto di inquietudine sociale. Così per le elezioni del novembre 1874 scrisse che si dovevano cercare «candidati onesti soprattutto, che credano un po' meno alla polizia e al gendarme e un po' di più agli istinti e al buon senso del popolo». Dall'altro il rifiuto della politica di Agostino De Pretis, che veniva giudicata una tattica di galleggiamento parlamentare tutta volta a costruire maggioranze ad ogni costo, senza alcun progetto: appunto il trasformismo nel suo significato peggiore. Per questo il giornale non rinunciava al suo taglio progressista, salutando la politica di riforme che Crispi inaugurava nel 1888-1890, pur fatta a colpi di ingiunzioni al parlamento. Una politica che aveva portato frutti di mutazione all'avanguardia della coscienza civile, come allora l'abolizione della pena di morte nel nuovo odice Zanardelli, un unicum nell'Europa del periodo. A questa riforma «Il Sole» tributò un grande omaggio, inquadrandola nel successo riformatore del progressismo italiano a cui Crispi aveva messo l'acceleratore dopo anni inconcludenti su quei temi. Ed è significativo che però di Crispi al nostro giornale non piacesse «quella prepotenza» con cui imponeva le sue idee. Davvero il nuovo paese che aveva ritrovato la sua unità politica non era, almeno nelle sue punte avanzate, una «Italietta». Una storia che potrebbe ancora insegnarci qualcosa.
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