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Dossier La cultura dello sviluppo e l’emergenza del Mezzogiorno

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Dossier | N. 19 articoliI 150 anni del Sole 24 Ore

La cultura dello sviluppo e l’emergenza del Mezzogiorno

Nel 1950 – in un'Italia ancora spossata dalla guerra, ma ben guidata – il VI Governo De Gasperi volle la Cassa del Mezzogiorno per guidare un piano di interventi straordinari per lo sviluppo del Sud puntando sulla realizzazione di investimenti infrastrutturali. Dietro questa scelta vi era Donato Menichella, che era passato dalla direzione dell'Iri a quella della Banca d'Italia, e aveva negoziato con Eugene Black, direttore della Banca Mondiale, il sostegno finanziario necessario, e lo aveva convinto a prendere il Mezzogiorno come punto di riferimento della capacità di promuovere lo sviluppo in attuazione del compito affidato alla Banca dall'Accordo di Bretton Woods del 1944.

Fu una svolta è epocale. Appena dieci anni dopo l'avvio della Cassa, Gabriele Pescatore, che con Pasquale Saraceno e Francesco Giordani ebbe un ruolo centrale nel realizzare gli obiettivi politici decisi, scrisse una memoria per l'Enciclopedia Treccani in cui ha reso conto di quanto era stato fatto. Il resoconto appare tuttora impressionante. Furono rimosse molte carenze infrastrutturali nel settore delle risorse idriche (a sostegno della riforma agraria che era stata simultaneamente avviata), della viabilità e dei servizi civili. Furono aperti circa 5000 km di inalveazioni e canalizzazioni ed impiantate 15 idrovore; tra le opere irrigue, impostate 32 dighe per invasi e 14 traverse di derivazione, cui sono interessati circa 8000 km di reti primarie e secondarie, a servizio di 250.000 ettari di superficie; tra le opere stradali e civili di bonifica, furono acquisiti circa 6000 km di viabilità rurale, 165 km di acquedotti rurali, 360 km di elettrodotti e 29 borgate e centri di servizio, per la più parte completati. In dieci anni furono colmati sia i disastri causati dalla lunga guerra nel Mezzogiorno, sia i molti vuoti economici e civili ereditati dai Governi del passato. Negli anni 60, dopo l'avvento del Centro-sinistra, in attuazione del Piano Vanoni del 1955, alla Cassa vennero assegnati obiettivi più ambiziosi, quello di promuove l'industrializzazione del Mezzogiorno, con la collaborazione dei privati e delle Holding pubbliche, quali l'Iri e l'Eni. Tra queste svetta il primo insediamento mondiale nel settore dell'energia atomica con la Centrale del Garigliano (1959).

Nel mentre l'Italia aveva realizzato il suo miracolo economico, guadagnandosi la qualifica di market eligible, ossia paese capace di finanziarsi sul mercato. Cessò pertanto la possibilità di ricorrere al sostegno finanziario della Banca mondiale; ma non è stato questo evento a creare un punto di rottura rispetto alla prima fase della Cassa, quanto il fatto che venne meno il controllo di qualità e di costo delle opere da parte internazionale. Le decisioni passarono sotto il controllo dei partiti locali e le realizzazioni divennero lente e costose, attirando critiche crescenti. La terza fase della Cassa fu per essa letale. Dopo la crisi del 1968 e quella petrolifera di inizio anni 70, le risorse della Casmez furono usate per colmare i divari di costo tra le produzioni meridionali e quelle esterne, venutesi ad innalzare anche a seguito dell'abbattimento delle barriere salariali Nord-Sud. A seguito di questa assistenza l'industria meridionale si trovò ancor più fuori mercato, in quanto divenne dipendente dall'assistenza pubblica per l'attività ordinaria, mentre veniva meno il contributo derivante dagli investimenti infrastrutturali a seguito della scarsità delle risorse a essi destinabili. La Casmez entrò in crisi irreversibile e fu sciolta nel 1984, dopo aver garantito 16 mila km di collegamenti stradali, 23 mila di km di acquedotti, 40 mila km di reti elettriche, 1.600 scuole e 160 ospedali. Altre iniziative tentarono di recuperare la spinta realizzatrice ed etica che aveva contraddistinto la prima fase dell'attività della Cassa. Ma lo spirito del tempo era ormai irrimediabilmente perduto e con esso quello che nella teoria economica e politica venne chiamata la cultura dello sviluppo sostituita dalla cultura che fosse il mercato a darsi carico dei divari di produttività e di occupazione.

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