Gennaio 1933. Nasce l'Istituto per la ricostruzione industriale, e nasce perché vi è un effettivo bisogno di ricostruire un tessuto industriale disastrato da anni di crisi ricorrenti e da interventi pubblici di salvataggio senza regole. In realtà l'origine dell'Iri sta nelle stesse fragili radici industriali del nuovo regno nato quasi frettolosamente dall'unificazione di sette stati, a diverso, ma generalmente scarso grado di industrializzazione. Nei primi anni postunitari, di fronte all'immane compito dell'unificazione economica e sociale della nuova nazione stavano poche grandi imprese, nate e cresciute all'ombra di governi di un paese strangolato fin dal suo nascere da un oneroso debito, ma con il bisogno di affermarsi come potenza economica e militare. Attorno al 1880 si promuove così la nascita di grandi imprese siderurgiche, meccaniche, elettriche, chimiche, necessarie alla crescita accelerata di un paese latecomer, cioè arrivato per ultimo e quindi sempre in rincorsa. Ed allora si sostiene anche un sistema bancario, che diviene diretto proprietario e gestore di questa grande impresa, in un intreccio che funzionava nelle fasi di crescita ma diventava malefico ad ogni recessione.
La grande crisi bancaria dei primi anni novanta dell'ottocento diventa la prima prova per la ricerca di soluzioni ad una fragilità endemica, che minava ogni velleità di potenza. La grande crisi successiva alla prima guerra mondiale portò alle stelle il bisogno di continui salvataggi bancari e quindi industriali. La creazione dell'Iri fu – come scrisse Saraceno – il modo per porre fine a questi salvataggi. Con la creazione dell'Iri, ente pubblico che acquisisce e gestisce con modalità privatistiche le partecipazioni delle grandi banche nelle grandi imprese, si afferma quel profilo di industria italiana, che permarrà stabile fino alla fine del secolo. Questo profilo industriale vedeva una presenza non diretta dello stato ma tramite una sua agenzia, nella costruzione e gestione delle grandi infrastrutture del paese, nelle imprese di base, nelle imprese strategiche come le produzioni militari, ed un ristretto gruppo di grandi imprese private, fra di loro bene intrecciate ed in fondo complementari a queste imprese pubbliche.
Nel dopoguerra l'Iri divenne lo strumento con cui il nostro paese, ancora una volta in ritardo strutturale, si proponeva quell'accelerazione che avrebbe dovuto portarlo fra i grandi paesi industrializzati. Fu una fase importante che va giustamente ricordata con grande orgoglio, ma fu anche in quegli anni che si ritrovano le radici di un uso “omnibus” dell'Iri, chiamata a sostenere gli “oneri impropri”, come si disse allora, di processi di industrializzazione forzati, poi di salvataggi senza uscita, poi di ogni intervento che potesse tenere insieme un paese che negli anni del post-boom dimostrava tutte le sue fragilità, generando perdite colossali. Con il risanamento avviato negli ottanta e novanta si predispone la via di una privatizzazione, che porta alla liquidazione dell'Iri.
Nel giugno del '2000 la storia dell'Iri si chiude, ma le sue imprese rimangono ancora oggi perni del nostro tessuto industriale. Una storia dunque lunga 150 anni, che obbliga ad interrogarci sulla necessità di disporre di grandi imprese come traino della crescita del paese, su quali siano oggi le grandi infrastrutture di sistema necessarie allo sviluppo produttivo, sulla necessità di disporre di tecnostrutture adeguate alla soluzione dei complessi problemi che il tempo attuale pone al nostro paese ed ora anche alla difficile Europa che stiamo vivendo.
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