Dagli anni quaranta fino alla morte (1998), Anna Maria Ortese non ha mai smesso di battersi per una causa che considerava fondamentale e prioritaria: quella degli animali, declinata a partire dalla constatazione dei mille modi in cui gli esseri umani si accaniscono sui loro fratelli diversi, sul «piccolo e segreto», le «Piccole Persone» che l’uomo, distaccatosi orgogliosamente da loro così come si è distaccato dalla Natura, sfrutta e ferisce e massacra in migliaia di modi. È stato un motivo di fondo della sua opera, soggiacente a quasi tutta e diventato centrale nel dittico narrativo conclusivo, Il cardillo addolorato e Alonso e i visionari. Il nostro distacco, la nostra separazione dalla natura e dal cosmo (è il tema che ha dato il titolo all’altra raccolta adelphiana dei suoi interventi, Corpo celeste), è il vero peccato originale, per lei, ed è distacco o separazione da un’appartenenza universale, che impedisce all’essere umano di godere di una pienezza, di un’armonia, e perché è spia di molte altre cose, per esempio della violenza che l’uomo esercita anche sui suoi simili, della distanza e incomprensione per l’essenza e unicità del creato di cui ogni essere vivente, e anche ogni vegetale e ogni minerale, è tuttavia parte. Gli scritti che Ortese ha dedicato agli animali sono stati infine raccolti da Angela Borghesi, che ha pubblicato di recente uno studio saldo e appassionato ai legami assai stretti che intercorrono tra il pensiero di Simone Weil, di Elsa Morante e di Anna Maria Ortese (Una storia invisibile, Quodlibet), confermante la convinzione di Giancarlo Gaeta che il più importante pensiero filosofico del Novecento sia stato quello di alcune donne, Arendt Hillesum Weil, e per l’Italia appunto Morante e Ortese, perché, in sostanza, estraneo all’orizzonte del potere dal cui ambito quello maschile è riuscito raramente e con gran difficoltà a uscire. Ed è strano che siano state le due italiane ad aver insistito di più, soprattutto Ortese, sul dolore degli animali, un tema che solo di recente, con la nuova coscienza dei pericoli che corre la natura e della necessità, infine razionale, di rispettarla e con la sensibilità che si va affermando verso il dolore degli animali, è entrato nel discorso ideale di tanti. A tratti esso è riuscito a imporsi, sia pure ipocritamente e con mille distinguo, perfino a qualche politico, a qualche potente. (Vorrei ricordare peraltro l’azione lontana di Aldo Capitini, che fu dopo la guerra, uno dei fondatori, con Egisto Marcucci, di un’associazione italiana per l’affermazione del vegetarianesimo, all’interno di una visione nonviolenta sia religiosa che laica, ed è curioso e strano che Morante e Ortese non abbiano mai incrociato quel pensiero e quelle esperienze.)
I testi di Ortese oscillano fra la riflessione teorica, che si fa quasi sempre predicazione, anche quando più libera e profonda, e il pamphlet (l’indignazione, anche a partire dalla cronaca), senza che vi sia mai una divisione precisa tra le due forme poiché spesso anche i primi vengono dalla cronaca, sono il risultato di un pensiero che nasce da un episodio, da uno scandalo. I primi, sono la critica di una cultura «che doveva sollevare l’uomo dalla pressione spaventosa delle cose e ha solo aggiunto, alle vecchie cose – le in conoscibili –, nuove cose, più conoscibili, certamente, in quanto fatte dall’uomo, ma che ora, disponendosi come fanno in un nuovo universo e potere, si sono unite alle prime nel ridurre lo spazio “disperato” che era tutto l’uomo e la sua libertà». Ne consegue che, mentre «la coscienza normale – di ogni atto o parola o decisione – non è ignota, tutt’altro all’uomo d’oggi, la coscienza profonda gli è quasi ignota. Ed è supremamente impopolare». A questo si aggiunge (ne deriva) la famelica capacità di distruggere che è di una figura d’uomo particolare, «l’uomo di denaro, accaparratore di tutti i beni, compratore di tutti i frutti e di tutte le anime» punito da se stesso perché quello che divora «non gli conquista paradisi, ma una nuova, strana solitudine». È la malinconia, per Ortese (che cita il Canarino di Mansfield, una scrittrice di cui Morante tradusse i diari), il sentimento più giusto prodotto dal distacco, ed è essa che potrà infine «avvertirci del giorno e della normalità che ritorna», se mai potrà ritornare, come in fondo accade con il puma-Cristo dell’ultimo romanzo.
Un’asprezza particolare Ortese riserva alla situazione italiana, di cui vede un «travolgente franare», mentre idealizza anche troppo la civiltà inglese (ma è molto bello il paragone tra la sorte della principessa e quella dei cervi inseguiti e uccisi dai cacciatori). Dell’Italia denuncia «l’insensatezza» della sua economia, dove «l’utile è legge» ma «non l’utile pubblico, il privato», e nella cui cultura o civiltà vede al centro «ferocia e mollezza», un Paese «che da secoli non dà segni di vita interiore». Propone, davvero controcorrente, che nelle scuole si fissi «un’ora di morale» o di religione, «non importa il nome», e denuncia l’irresponsabilità e crudeltà di una religione ufficiale (Wojtila) esasperatamente antropocentrica, incapace «di ammirazione, di riguardo e di pietà per la terra e tutti i suoi figli».
L’ammirazione di cui parla somiglia a quello di un versetto dei Vangeli apocrifi, «ammira le cose presenti». In definitiva, la sua c convinzione-dichiarazione è la seguente: «Ritengo gli animali appartenenti, a causa della loro faccia e del loro palese “sentire” e capire, appartenenti alla famiglia stessa da cui venne, terribilmente armato di raziocinio, l’uomo: la vita. Solo il raziocinio l’animale non ha: e per questo è considerato non popolo, come sarebbe giusto, non diverso, ma sempre persona della vita, ma è considerato cosa, e come tale è trattato».
Il fervore che muove questi scritti è commovente e trascinante, anche se avrebbe forse questi interventi avrebbero bisogno di un controcanto, diciamo così, “darwiniano”, nel ricordo di quanto feroci possono essere anche gli animali tra di loro, di quanto crudele possa essere a volte la natura. E dispiace davvero che Ortese non abbia potuto leggere Elizabeth Costello, il grande racconto-saggio di Coetzee in difesa del vegetarianesimo, uscito da Adelphi nel 2004, dove lo scrittore sudafricano vede negli animali vegetariani – ovini bovini equini – le prime e più indifese vittime della crudeltà e avidità umane. Vittime degli uomini, ma anche degli altri animali, dei carnivori. È la creazione stessa a venirne messa in discussione, e peraltro Ortese ebbe a dirmi, in un’intervista che le feci, che «la creazione è tarata». Lungo e forse disperato è il cammino da fare per correggerla, come hanno a loro modo proposto Gesù o san Francesco, e come forse sta cercando di fare, in un tempo dal futuro ancora più oscuro di quello vissuto da Ortese, il Francesco di oggi.
© Riproduzione riservata