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Tutti pazzi per il cosmo

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Tutti pazzi per il cosmo

I fortunatissimi libri di Carlo Rovelli (uno dei quali, come i lettori sanno, è nato su queste pagine) hanno decisamente ravvivato l’interesse del pubblico e degli editori per la fisica. Non che in passato siano mancati ottimi divulgatori in questo campo, ma è innegabile che per lungo tempo la fisica sia stata – almeno per ciò che riguarda la produzione italiana – la Cenerentola tra le scienze in libreria. La colpa è, in larga misura, di una didattica antiquata che, oltre a confondere fisica e matematica (con il deleterio abbinamento delle due cattedre, introdotto quasi un secolo fa e mai abolito), ha veicolato l’immagine di una scienza noiosa e pedante che si occupa di pendoli, carrucole, stantuffi, circuiti e amenità del genere. Parte della responsabilità, però, va anche attribuita all’inerzia e alla diffidenza del mondo accademico, immemore del notevole sforzo divulgativo compiuto dai grandi esponenti della nostra scienza novecentesca, come Enrico Fermi.

Le cose, per fortuna, stanno cambiando: da un lato, i fisici hanno cominciato a impegnarsi seriamente sul piano comunicativo, avendo preso coscienza dell’importanza culturale e sociale della cosiddetta «terza missione», diventata di recente oggetto di attenzione e di valutazione accanto alle missioni tradizionali della ricerca e dell’insegnamento; dall’altro, la “fisica moderna” è finalmente entrata in modo sistematico nei programmi liceali (salvo il fatto che la maggior parte dei docenti non è pronta a insegnarla; ma questo è un altro discorso). Forse non è un caso – e se lo è, prendiamolo perlomeno come un buon auspicio – che il grande successo delle Sette brevi lezioni di fisica di Rovelli abbia coinciso con l’introduzione a scuola della relatività e della meccanica quantistica.

Paradossalmente, sono proprio queste teorie, ritenute a torto incomprensibili, ad aver offerto nuove vie alla divulgazione. La relatività ci insegna che muoversi nello spazio è anche muoversi nel tempo, e che esplorare il cosmo equivale a ripercorrerne la storia. La meccanica quantistica ci dice che le particelle sono onde, e che grazie a esse possiamo scandagliare il mondo e vedere l’invisibile. La fisica contemporanea, insomma, si configura come uno straordinario racconto di viaggio, ed è in questa forma che può essere efficacemente presentata.

Lo fa oggi, con maestria da storyteller, Christophe Galfard, cosmologo di formazione e noto divulgatore, nel libro L’universo a portata di mano, fresco di successo in Francia. A un ritmo travolgente, Galfard proietta il lettore verso le profondità (e i primordi) del cosmo, nel tempo dilatato di un volo a velocità strabilianti, nei meandri della materia e dei quanti. Tre viaggi che non sono indipendenti l’uno dall’altro (ecco il fascino della più unitaria tra tutte le scienze), ma conducono verso un traguardo comune, il “muro” di Planck, la frontiera dell’enormemente piccolo, che è anche l’enormemente prossimo all’origine di tutto. Laggiù la gravità diventa paragonabile alle altre forze e manifesta proprietà quantistiche: peccato che non sappiamo di preciso come ciò avvenga. Fortunatamente c’è una finestra che consente di esplorare quel mondo remoto: sono i buchi neri, dove la relatività generale, che spiega la loro esistenza, incontra la teoria quantistica, che prevede la loro evaporazione, particella per particella. Ed è proprio un buco nero la destinazione dell’ultimo, e più avvincente, viaggio di Galfard, prima della gita finale nell’universo esotico delle dimensioni extra e delle stringhe.

Come già Stephen Hawking nel bestseller Dal Big Bang ai buchi neri, Galfard avverte che l’unica equazione presente nel volume è la solita E = mc². L’uso di altre formule, nel suo caso, sarebbe stato in effetti fuori luogo. Ma tutti – autori ed editori - sembrano credere alla regola enunciata da Hawking (e stranamente valida solo per la fisica, non per la matematica), secondo cui ogni equazione che compare in un libro ne dimezza le vendite. Dobbiamo allora necessariamente rinunciare, in un contesto divulgativo, a uno degli aspetti costitutivi delle scienze fisiche, il loro apparato formale? Esempi che invitano a un maggiore coraggio non mancano. Un bel libro di qualche anno fa dell’olandese Sander Bais, Equazioni, tradotto in tutto il mondo (in italiano dall’editore Dedalo), era interamente dedicato alle equazioni della fisica, illustrate come «icone della conoscenza». Ed è significativo il fatto che un recente romanzo, Equazione di un amore (Giunti), di Simona Sparaco, riporti sulla fascetta una delle equazioni più importanti della fisica, l’equazione di Dirac, sia pure privata della sua caratteristica essenziale, nascosta in un simbolo trascurato dall’ignaro editor. Se andassimo a ripescarlo, quel piccolo segno ci parlerebbe di un grande scienziato che, giocando con i numeri, si ritrovò tra le mani qualcosa di inaspettato, la formula dell’antimateria. Storie di equazioni come questa non sarebbero interessanti da raccontare?

Alla fine dell’Ottocento un ragazzino di Ulm si imbatté in una serie di volumetti divulgativi di un certo Aaron Bernstein, che invitava i suoi lettori a compiere viaggi immaginari su un treno in corsa o a cavallo di un segnale elettrico. Il ragazzino, Albert Einstein, scoprì in tal modo la bellezza della scienza e qualche anno dopo, nell’elaborazione della relatività, fece ampio uso di esperimenti concettuali simili a quelli trovati nei libri di Bernstein. Nessun divulgatore, ovviamente, oserebbe sognare di ripetere l’impresa. Ma la speranza, in fondo – e fatte le debite proporzioni –, è la stessa: accendere una scintilla in qualche giovane lettore, aprendogli le porte di un mondo incredibilmente affascinante.

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