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L'ombra di Piero sul Novecento

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L'ombra di Piero sul Novecento

Piero della Francesca, «Madonna della Misericordia», Sansepolcro, Museo  Civico
Piero della Francesca, «Madonna della Misericordia», Sansepolcro, Museo  Civico

Nella seconda metà del XIX secolo due stimati storici dell'arte, Crowe e Cavalcaselle, pur ammirando nella pittura di Piero della Francesca l'abilità nella resa prospettica e la «distribuzione delle luci e delle ombre», deploravano la mancanza di una «qualità essenziale per un artista qual è quella della scelta delle forme». Per tale deficienza Piero non poteva essere annoverato fra i sommi. Non è che uno degli svarioni nei quali anche i migliori esegeti sovente incorrono.

Di fatto, la figura del grande pittore di Sansepolcro non venne messa a fuoco senza indugi e obiezioni, del resto il genio di Piero è per sua natura difficile da comprendere e refrattario a qualunque classificazione. Grazie all'affondo del saggio fuori dagli schemi di Roberto Longhi del 1914, ebbe inizio una lucida riscoperta pierfrancescana, che diede avvio a un capitolo essenziale e non puramente teorico della sua fortuna, tradotto in innumerevoli testimonianze figurative dell'arte del Novecento non solo italiana.

Negli anni Venti e Trenta il rilancio di Piero della Francesca fu consacrato da alcuni pittori del calibro di Casorati e Morandi, come effetto di una corrispondenza poetica che andava oltre le apparenze e le forme. Lo possiamo verificare nell'interessante mostra dedicata al tema della fortuna pierfrancescana dal XV al XX secolo, allestita a Forlì, dove fra i molti quadri ne è esposto uno di Casorati, il magnifico Ritratto di Silvana Cenni del 1922, che riprende la Madonna della Misericordia di Piero su impulso di un'affinità intensamente poetica, che ritroviamo – sotto speci diverse- anche nel Paesaggio di Morandi del '27, pubblicato nel catalogo da Maria Cristina Bandera, che deriva fedelmente da un particolare dell'affresco della Vittoria di Costantino in San Francesco ad Arezzo. Questo parallelo è proposto sulla base del confronto tra l'originale e una nitida foto in bianco e nero, conservata negli archivi della Fondazione Longhi a Firenze.

La fortuna di Piero della Francesca nel XX secolo si dirama nelle due tendenze, non necessariamente contrapposte, dell'ispirazione sentita e della semplice derivazione. Eloquente esempio di quest'ultima è la Composizione di nudi di Onofrio Martinelli, nella quale di pierfrancescano vi è tutto e niente, mancando la sintesi, vale a dire il palpito “metafisico” che pervade i silenziosi abitatori del mondo di Piero. Molte sono le opere la cui somiglianza con quelle del pittore sono da ritenersi più ad sensum che reali, non bastando volti geometrici, profili finemente delineati, palpebre semi chiuse, sguardi abbassati, a garantire l'atmosfera pierfrancescana. Più attendibile e meno arbitrario risulta il confronto con alcuni dei non pochi artisti che, almeno in sede teorica, pronunciarono il nome di Piero della Francesca: Carrà, Campigli, Funi, Guidi. Ma trovare tracce del maestro di Sansepolcro in Borra, Cavalli e Capogrossi mi sembra acrobatico. Sul piano didascalico si collocano copie e riproduzioni: dai grandi disegni di Layard, agli acquerelli di Cesare Marianecci, che tenta di esser fedele ai modelli anche dal punto di vista cromatico, dai dipinti di Loyeux, duri quanto il muro, ai disegni di Ferrazzi che tuttavia non sono pedissequi.

I curatori della mostra – D.Benati, P. Refice, A. Paolucci e altri – hanno giustamente inteso concentrare l'ingente materiale didattico all'inizio del percorso, esponendo le opere antiche e moderne in sequenza separata, sì da evidenziare quanto brusco sia il balzo della fortuna di Piero dal XV al XIX secolo, riprova di come la sua fama, nei secoli intermedi, abbia subito un arresto. Considerando che la produzione pierfrancescana è oggi decimata e che gli affreschi del 1439 in San Egidio a Firenze, compiuti in veste di collaboratore di Domenico Veneziano, sono perduti, così quelli di Ferrara, non è immediato stabilire in che misura Piero abbia influenzato i contemporanei. Egli accolse certamente gli stimoli della “pittura di Luce” fiorentina, di Domenico Veneziano e Beato Angelico, e apprese la lezione di Masaccio e Paolo Uccello, tuttavia non esiste nel XV secolo pittore, per invenzione prospettica, «sintesi di forma e colore», geometrica razionalità, altrettanto autonomo. Quanto il verbo di Piero della Francesca sia stato fecondo lo si percepisce al cospetto dei seguaci di stretta osservanza: dai Canozi da Lendinara a Bartolomeo degli Erri, ai ferraresi, a Francesco Benaglio, al misterioso Bonascia. Poi vengono Melozzo e Giovanni Bellini negli anni settanta.

Alla domanda da quale fonte speculativa scaturiscano l'immobilità e la parvenza d'“impassibilità”dei personaggi pierfrancescani, che altro non è che illuminata e meditata introspezione, il suo far ricorso a forme arcaiche, la «solennità rituale delle composizioni», l'essere gli abitanti del suo mondo «assorti in un culto sacrale», è arduo rispondere. Di una convincente risposta troviamo più di un barlume nella monumentale monografia di Eugenio Battisti e - se ben ricordo – nella bellissima introduzione di Giusta Nicco Fasola all'edizione del trattato De perspectiva pingendi (1942). Qui la grande studiosa apre e immediatamente chiude il problema della possibile presenza, nella pittura di Piero, di indizi del pensiero platonico. È una pista da battere ancora, pur mettendo in preventivo di portare a casa assai poco.
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Piero della Francesca. Indagine su un mito , Forlì, Musei di San Domenico, fino al 26 giugno. Catalogo Silvana Editoriale

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