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Cash e gli altri. Gli Highwaymen che cambiarono il country

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Cash e gli altri. Gli Highwaymen che cambiarono il country

I supergruppi sono una trovata vecchia quanto l'industria discografica. Prendi quattro stelle di prima grandezza di un determinato genere musicale, mettile tutte insieme appassionatamente in una sala d'incisione, tira fuori un album di culto e quindi – se ci riesci, perché l'ego delle stelle di prima grandezza è quasi sempre smisurato e tende confliggere con il prossimo – portali in tour. Se l'alchimia funziona, può succedere che cambi la storia.

Il primo caso celebre è quello del Million Dollar Quartet, esperimento di casa Sun Records datato 1956 che annoverava Elvis Presley, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis e Carl Perkins, ossia il meglio della musica dell'epoca ascrivibile alle categorie rock and roll/country. Durò una manciata di ore e fu riscoperto «postumo», negli anni Novanta. Ma Cash il vizio di collaborare con i suoi «fratelli di strada» non lo perse mai. A metà degli anni Ottanta mise così in piedi the Higwaymen, supergruppo che riuniva i massimi esponenti di quello che potremmo definire il country «fuorilegge», sottogenere da lui stesso iniziato che cantava l'epopea di quelli che sulla strada stanno sempre dalla parte sbagliata e procedono, come direbbe qualcuno, in direzione ostinata e contraria.

Gente come l'antieroe che sta al centro di «Folsom Prison Blues», insomma, di quelli che uccidono un uomo «solo per vederlo morire». Che gente: assieme «the Man in Black» c'erano Willie Nelson, Kris Kristofferson e Waylon Jennings. Proprio quest'ultimo, nella sua autobiografia, parlando del progetto scriverà: «John dice che ci siamo messi insieme perché abbiamo tutti un impegno a vita con la musica. Conosciamo le stesse canzoni, ma le cantiamo con un approccio differente. Possiamo fondere il primo country della famiglia Carter con lo swing texano, con il gospel del Sud e con il rockabilly, e ognuno di noi si sente a proprio agio cantando vere e proprie “parti di vita”. Non c'è nessuno di noi che non abbia fatto i conti con la propria vulnerabilità umana, e sono state tante le volte nelle quali abbiamo affrontato i brutti momenti insieme». Che alchimia erano capaci di generare, tutti quanti insieme su un palco. Chi volesse riviverla può oggi contare su «The Highwaymen Live – American Outlaws», box appena uscito per Columbia Legacy che unisce due cd registrati live al Nassau Coliseum di Uniondale nel 1990, un terzo cd con brani registrati dal vivo in diversi festival del «Farm Aid», evento benefico organizzato da Nelson insieme con Neil Young e John Mellencamp a sostegno delle famiglie dei contadini americani, un dvd o un blue-ray con il video inedito del live al Nassau Coliseum.

Tra le chicche del cofanetto dall'accattivante packaging pieghevole, anche una versione mai pubblicata della «One Too Many Mornings» di Bob Dylan cantata da Nelson e Kristofferson. Ascoltare tutto questo materiale di fila rappresenta una godibilissima cavalcata nei territori del Great American Songbook, una prateria su cui all'epoca ancora germogliava il fiore dell'autenticità che l'esplosione della «musica di plastica» ha finito per ridurre a una specie di riserva indiana. Quando Johnny drammatizza i tormenti amorosi di «Ring of Fire», quando Kris racconta quante ne ha combinate assieme a «Bobby McGee», quando Waylon si mette a ironizzare sul suo destino di «Trouble Man» e quando Willie sfuma il proprio autoritratto sulle note malinconiche di «On the Road Again», l'ascoltatore appassionato finisce col sentirsi meno solo. Miracoli che riuscivano ai supergruppi, quando il risultato finale della loro unione valeva più della somma delle parti.

The Highwaymen
«Live – American Outlaws»
Columbia Legacy

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