
Ogni anno leggo Il sistema periodico col centinaio di studenti del mio corso introduttivo di chimica. L'ho fatto anche con mille studenti; sì, negli Stati Uniti capita di insegnare in corsi giganteschi. Nella mia università - Cornell, stato di New York - i libri di Primo Levi rientrano anche nei corsi su biografia, memoria e Olocausto.
Perché mai i miei studenti dovrebbero leggerli? Perché anche in questa prestigiosa università hanno una vita frammentata in scomparti: studiano chimica, sopravvivono alla prova di matematica, frequentano storia. La vita di Levi non era frammentata. La chimica ne era una parte essenziale, non separata dalla sopravvivenza o dalla filosofia. Un po' per caso (la chimica gli servì a sopravvivere nel lager) e un po' per intima scelta. Voglio che i miei studenti lo sentano anche se non voglio che facciano per forza i chimici. Sento però il bisogno di far vedere loro che questo è un uomo, non un eroe della chimica forse, per il quale il mondo era uno.
Perciò un “nuovo” libro, a oltre un decennio dalla morte, è atteso qui come in Italia. L'ultimo Natale di guerra raccoglie racconti usciti su . Di tutta la gamma espressiva di Levi, manca solo la poesia. Ci sono ricordi di Auschwitz ripresi a distanza dolce-amara dagli eventi, favole, interviste di animali, fantascienza moralistica à la Stanislaw Lem o à la Italo Calvino. Nel racconto , il giovane Timoteo prosegue la tradizione familiare e fabbrica specchi comuni di giorno e di notte specchi speciali che catturano le emozioni. A furia di esperimenti, ottiene uno Spemet (specchio metafisico). Grande come un biglietto da visita, può essere attaccato sulla fronte di persone disposte a collaborare. Strani congegni ottici , mostrano come gli altri ci vedono davvero. Timoteo ne prova uno sulla fidanzata e si vede vecchio e brutto. Lei diventa presto una “ex”. Invece l'immagine rimandata dalla nuova fidanzata è meravigliosa; e lui, com'è ovvio, le promette eterno amore. Tenta poi di mettere in commercio gli Spemet e fallisce. Gli specchi veridici non piacciono; torna a farne di normali, piani, da leggere come uno desidera.
Al di là della morale ovvia, il mio collaboratore italiano Andrea Ienco ha notato come sia squisitamente descritta, nell'iniziale ricerca dello specchio magico, la ricerca della conoscenza da parte dello scienziato. Io non posso fare a meno di notare che il finale - il testo è del 1985 - è scontato e stanco. Forse era stanco Levi: infatti morì poco dopo come tutti sappiamo.
Molti racconti sono gentilmente divertenti. In una lettera a Piero Bianucci, direttore del supplemento scienze al quale Levi collaborava, giovani aliene dell'ottavo pianeta di Delta Cephei e “fan di spot” hanno visto Bianucci in Tv. Assediate pure loro da pericoli e paure, gradirebbero informazioni su antifermentativi, antiparassitari, antisemiti, anticoncezionali, antiquari e antilopi.
In questi suoi ultimi racconti, Levi mira spesso al simbolismo. E sono pieni di metafore, attinte di sicuro dalla chimica. Come il poeta Coleridge il quale disse che, quando gli serviva una metafora, osservava gli esperimenti dell'amico Humphry Davy, un grande chimico inglese, Levi disse a Tullio Regge (in Dialogo): « ... la mia chimica, che poi era una chimica “bassa”, quasi una cucina, mi ha fornito in primo luogo un vasto assortimento di metafore. Mi ritrovo più ricco di altri colleghi scrittori perché per me termini come “chiaro”, “scuro”, “pesante”, “leggero” e “azzurro” hanno una gamma di significati più estesa e più completa...». Nelle mani di Levi le metafore si trasformano in pepite di intuizioni, straordinarie perché sorgono dall'ordinario che viene osservato. Mi sembrano racconti da leggere, quindi: arricchiscono la maniera in cui noi vorremmo fare l'esperienza del mondo.
(*) Premio Nobel per la Chimica
Primo Levi, , Einaudi, Torino 1999, pagg. 142, L.24.000.
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