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Le scultrici lavorano in astratto

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Arte

Le scultrici lavorano in astratto

Da quando hanno avuto il “permesso” di esistere, le donne artiste hanno avuto anche un triste superpotere: quello di esserci senza essere viste. Una specie di mantello dell’invisibilità con cui il sistema dell’arte le ha tenute in gran parte fuori dai musei - se non in veste di muse altrui - e dalle gallerie. La percentuale di mostre personali che i musei più importanti del mondo dedicano alle donne va da un massimo del 30 a un minimo (molto comune) dello zero per cento. La porzione di donne nelle scuderie delle gallerie commerciali - ma anche nelle biennali - è intorno a un terzo del totale, quando va bene.

Ma questo “vuoto” sta diventando, agli occhi di qualcuno, un possibile “pieno”: si annunciano mostre dedicate, nascono premi riservati, e si incrociano perciò vecchie domande e nuove certezze sulle quote rosa dell’arte.

L’evento più rivoluzionario di questi mesi si intitola proprio Revolution in the making ed è una ricognizione (con molte opere non in vendita) sulla scultura astratta femminile degli ultimi 70 anni. È la rassegna che apre un nuovo spazio espositivo a Los Angeles: la prima sede West Coast della galleria Hauser & Wirth, che nasce con una vocazione museale: sette edifici, 10mila metri quadri, bookshop, spazi didattici.

La mostra è epocale, visivamente e concettualmente: si parte dal dopoguerra con Ruth Asawa, Lee Bontecou, Louise Bourgeois, Claire Falkenstein e Louise Nevelson. Poi arrivano le “postminimaliste” degli anni Sessanta e Settanta, Magdalena Abakanowicz, Lynda Benglis, Gego, Eva Hesse, Sheila Hicks, Yayoi Kusama. E l’ampia “generazione postmodernista” di Isa Genzken, Cristina Iglesias, Anna Maria Maiolino, Marisa Merz e Ursula von Rydingsvard. I lavori più recenti sono quelli di Phyllida Barlow, Sonia Gomes, Jessica Stockholder e delle più giovani Karla Black, Rachel Khedoori, Kaari Upson, Shinique Smith. In tutto, ci sono oltre cento lavori di 34 artiste, con 60 prestatori tra cui 20 musei americani, ma anche parecchie opere commissionate per l’occasione.

I curatori sono Paul Schimmel, leggendario curatore capo del Moca, che ha lasciato il museo losangelino per dirigere questa avventura, cambiando il nome della galleria in Hauser Wirth & Schimmel, e Jenni Sorkin, che aveva già contribuito a Whack! Art and the Feminist Revolution al PS1. Seduto a fumare nel cortile centrale della galleria, sotto a 30 to 1 Bound Trees, un pennacchio di canapa e betulla di Jackie Winsor alto sei metri, Schimmel spiega: «La scultura astratta femminile è un’area nella quale sono successe cose straordinarie. Le mostre d’arte femminista degli ultimi 15-20 anni hanno privilegiato lavori più dichiaratamente politici: molte di queste artiste sono state incluse, ma del loro lavoro non è stato catturato quello che ne fa un contributo importantissimo alla storia della scultura contemporanea, cioè la volontà di sviluppare nuovi processi e strumenti, di rompere la consuetudine nell’uso di alcuni materiali, di stravolgere vecchie gerarchie. È un percorso che attendeva di essere rivalutato: quando ho chiesto questo pezzo iconico alla Winsor, ho domandato: so che l’opera non è mai più stata riprodotta, come mai? Lei ha risposto: perché nessuno me l’aveva chiesto».

Se per Schimmel «tirare fuori artisti dal basement» è motivo di soddisfazione personale, per il gallerista Iwan Wirth lavorare con le artiste è una fortunata consuetudine. Anzi, un segno distintivo: «Noi abbiamo il 50 per cento di donne tra gli artisti della galleria». Come mai? «Perché ho cominciato lavorando con mia suocera Ursula Hauser, che collezionava solo donne. La prima artista a unirsi alla galleria è stata Louise Bourgeois, e il primo Estate che abbiamo rappresentato è stato quello di Eva Hesse. Mosse intelligenti: Ursula ha visto le grandi collezioni fatte da curatori maschi bianchi, con artisti maschi bianchi, e ha capito che con un budget limitato, 30 o 40 anni fa, i lavori più interessanti erano quelli delle donne». Quindi è vero che le donne collezionano più artiste donne? «Non è sempre detto, ho anche visto molte curatrici aver paura di promuovere artiste. Ma credo anche che proprio per via di questa ’fame’, si sia a un certo punto scatenata un’energia fortissima. E oggi c’è un grande valore nel comprare arte fatta da donne. Basta guardare i numeri: non c’è ragione perché Eva Hesse debba costare solo la metà di Jaspers Johns. Roni Horn, esposta qui al primo piano, vale tanto quanto Richard Serra. Nella mia testa, la Bourgeois è alla pari con Giacometti, invece nella realtà il suo prezzo è una frazione. Questo dovrà per forza cambiare. Qualche anno fa il pezzo più costoso della Bourgeois costava 9 milioni di dollari, mentre Giacometti era a 60. Adesso lui è a 100 milioni, lei a 30». Cosa significa? «Che il divario si va colmando, e sarà un’iniezione di fiducia per le altre donne. E anche che è il momento giusto per formare le nuove generazioni di collezionisti e di filantropi».

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