Cultura

Levi, Antelme e il Lager

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DOMENICA

Levi, Antelme e il Lager

Non passa giorno, si puo' dire, in cui non si celebri in qualche modo, con pubblicazioni, convegni o discussioni, la memoria di Primo Levi. Quando Gianfranco Folena, poco dopo la sua tragica morte, penso' di commemorarlo al Circolo filologico padovano, e chiamo' all'uopo il sottoscritto e Pier Vincenzo Mengaldo, nella sua relazione Mengaldo riferi' che nessun dizionario letterario menzionava il suo nome.

L'unico Levi che vi si reperisse era Carlo Levi. Adesso e' quasi il contrario, Primo ha gia' avuto due edizioni delle opere piu' o meno complete, l'ultima delle quali, egregiamente introdotta da Daniele Del Giudice, si raccomanda particolarmente per le cure filologiche di Marco Belpoliti («Il Sole-24 Ore Domenica», 30 novembre 1997), Carlo per ora nessuna, e la sua memoria si affievolisce vieppiu'. Il che e' di nuovo ingiusto, perche' in entrambi i casi, a prescindere dalla parentela onomastica, si tratta di importanti scrittori-testimoni del nostro tempo. Goffredo Fofi ha affermato tempo fa che ci eravamo sbagliati, che i maggiori scrittori del primo dopoguerra non erano Pavese e Vittorini ma gli scrittori-testimoni, i due Levi e Ennio Flaiano (per Tempo di uccidere). Penso che avesse ragione, e che l'abbaglio fosse dovuto ai pregiudizi correnti in Italia per cui la letteratura non doveva avere niente in comune con l'esperienza ed era faccenda esclusiva di nobiluomini, frati, professori e proprietari terrieri, negli ultimi tempi anche consulenti editoriali.

Cio' non significa che Primo Levi non avesse una sua cerchia di aficionados molto prima di essere riconosciuto come scrittore a pieno titolo. Io stesso mi ricordo che una volta, passeggiando con lui e altri amici nel Parco delle Rimembranze di Torino, fummo fermati da un signore che lo aveva riconosciuto da una foto e gli chiese un autografo. Ebrei, reduci, chimici, piemontesi e alpinisti possono, sommati, costituire un numero di lettori abbastanza cospicuo. Ma certo, qui come in altri casi, «a' generosi / giusta di glorie dispensiera e' morte» (come fu scritto a proposito di un altro suicida); specie quando questa morte puo' essere ricondotta, a torto o a ragione, al permanere di un trauma. Nei dieci anni trascorsi, Primo e' finalmente entrato in tutti i dizionari letterari, e ora e' uscita un'utilissima Antologia della critica (Einaudi Pbe, Torino 1997, L. 28.000), che raccoglie tutti i principali contributi a lui dedicati in Italia e anche altrove (c'e' per esempio il saggio di Cynthia Ozick, la nota scrittrice statunitense). Il curatore e' Ernesto Ferrero, che ha anche chiuso la parte propriamente antologica con un accuratissimo saggio sulla «fortuna critica», che fornisce spesso recensioni minori, come quella, famosa ma introvabile, di Arrigo Cajumi alla prima edizione di Se questo e' un uomo.

Fin qui tutto bene. Levi e' un grande scrittore e Ferrero e' il suo profeta. Ma non e' solo lui a testimoniare del Lager, ci sono altri testimoni, spesso pubblicati da Einaudi. Perche' Levi si' e loro no? Dal punto di vista editoriale e anche da quello, diciamo, propagandistico, non c'e' dubbio che tutto faccia brodo. Piu' testimoni si stampano e ristampano e meno margine resta ai cosiddetti revisionisti che negano o sminuiscono la realta' dei Lager. Ma se esiste qualche cosa di simile allo hegeliano spirito assoluto, non tutti i testimoni e non tutti gli scrittori si equivalgono, e i confronti sono leciti. C'e' chi e' piu' vicino e chi e' piu' lontano dalla verita' che ha vissuto e che ha inteso descrivere. Anzi il grave pericolo dell'industria culturale e' quello di schiacciare tutto sullo stesso piano. Dante e Giacomino da Verona dopo tutto hanno avuto entrambi delle visioni del mondo d'oltretomba, Levi e il film Holocaust trattano tutti e due di Auschwitz. Chi vuol saperne di piu' in proposito ha l'opportunita' di leggere o rileggere la Dialettica dell'Illuminismo di Horkheimer e Adorno, che Einaudi ha coraggiosamente ripubblicato in tempi poco propizi con un'ottima introduzione di Carlo Galli (Torino 1997, L. 36.000). Ma basta guardarsi attorno per apprendere che la societa' contemporanea tende a cancellare le differenze, tanto quanto Primo Levi cercava di ribadirle.

Parlando di questo suo proposito, che mi pareva comune alla sua mentalita' scientifica e al suo stile letterario, e prendendo le mosse da quel racconto del Sistema periodico sulla differenza tra sodio e potassio, quasi inesistente ma talvolta importantissima, mi venne fatto di citare in una relazione tenuta al convegno su Levi di Princeton, il libro di Robert Antelme La specie umana, la cui traduzione italiana era apparsa presso Einaudi nel 1954, cioe' quattro anni prima della nuova edizione einaudiana di Se questo e' un uomo. Mi permettevo di supporre che tanta fretta fosse dovuta al desiderio di contrapporre a quello di Levi un libro in cui si riusciva a fare della letteratura anche sul Lager e che era stato certamente raccomandato da Elio Vittorini, amico di Antelme e di sua moglie Marguerite Duras. Tale ipotesi ribadivo in un articolo su «La Stampa», in cui difendevo Myriam Anissimov, la biografa francese di Levi, dall'accusa, semplicemente falsa, di averla concepita lei, e ne rivendicavo la paternita' esclamando con l'eroe virgiliano: «In me, in me, Rutuli, vertite ferrum». O che i Rutuli non capiscano piu' il latino, o che siamo di fronte a un caso di eterogenesi dei fini, fatto sta che i Rutuli se la sono presa non con me ma con Mengaldo, e hanno riesumato alacremente il povero Antelme, che noi non avremmo preso abbastanza in cosiderazione. I Rutuli sono Alberto Cavaglion, autore dell'introduzione alla ristampa del libro di Antelme (La specie umana, traduzione di Ginetta Vittorini, nota di Hermann Langbein, Einaudi Tascabili, Torino 1997, L. 17.500) e Domenico Scarpa, che ha recensito favorevolmente il libro su «L'indice dei libri del mese» (luglio 1997). Lo Scarpa questa volta non procede come con l'Anissimov (Un Levi improbabile in «La rivista dei libri», aprile 1997) a mo' di asina di Balaam, prima vomitando invettive contro la straniera e poi rispondendo senza pregiudizi e con due colonne di piombo alla domanda: «Quante cose nuove impara da questo libro il lettore di Levi?». E queste cose sono tante (sono quelle che anch'io non sapevo) che da sole basterebbero a giustificare il lavoro del l'Anissimov. No, qui Scarpa va alla ricerca del tempo perduto, scava nel passato di Antelme, scopre che era una brava persona (vorrei sapere chi lo contestava), che ha sofferto molto (tant'e' vero che la Duras ci ha scritto un libro sopra), che conosceva Mitterrand e Edgar Morin, che Mitterrand lo tira fuori personalmente da Dachau, che pesava ottanta chili e ora ne pesa trentacinque, che scrive le prime pagine del suo libro a Bocca di Magra davanti a Elio e Ginetta Vittorini. I miei sospetti vengono dunque clamorosamente confermati da questo ricercatore sul campo. Giulio Einaudi (altro frequentatore abituale di Bocca di Magra), Vittorini & C. (tutta gente che aveva letto Primo Levi nell'edizione De Silva) gli avrebbero preferito il mediocre Antelme. Questa sarebbe l'«accusa» che era stata fatta al libro di Antelme da vili mestatori come il sottoscritto e Mengaldo, mentre esso e' un «capolavoro», come ha scoperto Scarpa dopo essersi calato nel pozzo del passato di Bocca di Magra. Prima di lui, l'aveva scoperto Cavaglion, particolarmente temibile perche' conosce ogni virgola di Primo Levi, nonche' di ogni scrittore ebreo o italiano dalle origini ai nostri giorni. Ma come dice l'espressione tedesca, a veder troppe foglie c'e' rischio di non veder il bosco. Il Cavaglion crede di avere scorto una foglia particolarmente significativa in un articolo del «giovane, e ancora del tutto sconosciuto George Perec» di esaltazione del libro di Antelme, in cui si sostiene che «la volonta' di parlare e di essere ascoltati... sbocca verso quella fiducia illimitata nel linguaggio e nella scrittura che fonda ogni letteratura». Non e' chi non veda che qui Perec forza Antelme a precursore del suo particolare metodo di fare letteratura (e del resto dice soltanto che «sbocca» in esso), che a sua volta e' un modo particolarmente agguerrito e geniale di proclamare il primato francese della letteratura. Ora quello che Mengaldo e io rimproveravamo ad Antelme era proprio questo primato, che e' completamente estraneo a Primo Levi (non tanto perche' era italiano, quanto perche' non era un letterato); tant'e' vero che Cavaglion ha potuto far rimbalzare tale rimprovero da Antelme a David Rousset, autore di quell'Universo concentrazionario, tradotto anche in italiano (Baldini & Castoldi, Milano 1997), in cui gia' Cajumi aveva riscontrato militante politico». Ora questo non e' un rimprovero, ma caso mai un certificato di appartenenza, non tanto, almeno nel caso di Antelme, al surrealismo e al comunismo, quanto a un gruppo di intellettuali militanti.

Lo stesso accadra' nel libro di Jorge Semprun, Il grande viaggio, pubblicato anni dopo dallo stesso Einaudi, in cui l'autore, dopo averci fornito una descrizione icastica del l'arrivo a Buchenwald con i bambini gettati in pasto ai cani, per quasi tutto il resto del libro si sdilinquisce in nostalgia della Scuola normale e della Biblioteca nazionale. La presenza di questa cultura di cui gli intellettuali si sentivano, come diceva l'altro Levi (Carlo, nel libro sul viaggio in Russia) «catafrattati», non era certo sempre un fatto negativo. Magari di Primo si fossero interessati De Gasperi e Moravia, come Mitterrand e Morin si interessarono di Antelme, allora tanto sconosciuto quanto Levi, ma entrato nel giro grazie al matrimonio con la Duras! Non ho niente contro i gruppi di pressione, neanche contro i francesi o i franco-italiani, come quello di Bocca di Magra. Caso mai ce l'ho contro i gruppi di pressione che non hanno funzionato nel caso di Primo Levi, come gli ebrei o i piemontesi o altri sopraelencati. Fatto sta che Einaudi obbedi' a quel gruppo di pressione (Vittorini volle «fortissimamente» il libro di Antelme, dice Cavaglion, esagerando, perche' Vittorini non era cosi' alfieriano), pubblicando il libro di uno che non aveva capito nulla del Lager prima di quello di uno che aveva capito tutto. E questo non tanto perche' non era stato ad Auschwitz, bensi' a Buchenwald e a Gandershelm (anche se la differenza era grande, e un mio amico che e' stato a Buchenwald e ne e' tornato - lui, non la sua famiglia - mi racconto' di avere un conoscente un po' idiota che va assicurando che «a Buchenwald non si stava poi cosi' male»), quanto perche' era catafrattato come Semprun contro l'esperienza dal ricordo irresistibile della cultura francese. Tutto e' relativo, e Ruth Kluger non ha torto di dire che di fronte a lei e agli ebrei austriaci in ballo dal 1938 la domanda di Primo Levi «se questo e' un uomo» fatta ad Auschwitz nel 1944 appare tardiva e frutto di un'esperienza improvvisa, che in lei era stata graduale; lei era stata spogliata pezzo per pezzo della sua umanita'.

Ma anche l'umanita' per Cavaglion e' un'invenzione letteraria. Si sa che per i letterati non c'e' nulla in letteratura che non sia stato prima carta stampata. Dante ha scritto perche' c'era gia' Giacomino da Verona. Anche Ferrero non si sottrae a questa legge ferrea, quando ipotizza che la mia recensione all'edizione Antonicelli del primo libro di Primo, pubblicata nel «Bollettino della Comunita' Israelitica di Milano» (maggio-giugno 1948) e da lui ristampata nell'antologia della critica leviana sia stata recensione di Calvino su «l'Unita'» (di Torino), e questa a sua volta dalla recensione di Cajumi, che passava da Levi al Sentiero dei nidi di ragno. Ma io allora non sapevo nulla ne' di Cajumi ne' di Calvino, e a Milano non si leggevano i giornali di Torino. Scrissi l'articolo perche' ero ebreo e conoscevo Primo, e non perche' fossi un intellettuale, ma perche' non l'eravamo entrambi. Cosi' l'uomo non e' un'invenzione propiziata a Levi da Vittorini e Antelme, come immagina Cavaglion in una di quelle genealogie fantastiche care ai letterati, ma esisteva gia' prima, e gia' prima purtroppo era negato. I critici farebbero meglio a vedere gli influssi che ci sono e non quelli che non ci sono. Antelme e' inferiore a Levi perche' non ha capito del Lager che quello che poteva capire l'autore della Grande Illusione nella Prima guerra mondiale. Ma questo non significa che sia uno scrittore da buttar via (chi l'ha mai detto?). E' un ottimo descrittore di paesaggi, come sostiene giustamente Cavaglion, e autore di sapidi dialoghi tra soldati. Per la prima qualita' si possono citare mille ascendenze, per la seconda una sola, che allora non si poteva menzionare a Bocca di Magra per ragioni politiche: e cioe' Celine.

E qui c'e' il problema della traduzione. Com'e' noto, La specie umana fu tradotto due volte, e la prima versione, commissionata a chissa' chi perche' al gruppo di pressione di Bocca di Magra bruciava il terreno sotto i piedi, non doveva essere un gran che, se Ginetta Vittorini si decise a rifarla lei per la nuova edizione del 1969 per la collana Supercoralli. Senonche' la brava Ginetta doveva sapere il francese quanto il marito conosceva l'americano, cioe' poco. In particolare ignorava l'argot, ed era fermamente convinta che la parola vache designasse solo il paziente animale domestico che ci fornisce il latte, e non significasse anche «malvagio, carogna». Sicche' i famosi paesaggi di Antelme sono popolati da vacche che sono poi perfidi tedeschi. Insomma, anche la seconda traduzione e' pessima, e del resto dall'accurata bibliografia in appendice al libro di Angelo Morino Il cinese e Marguerite (Sellerio, Palermo 1997) si desume che due traduzioni einaudiane di Ginetta della Duras hanno dovuto essere rifatte. L'asse italo-francese di Bocca di Magra aveva dei limiti, per non parlare del tedesco, che giunge in Antelme fino a capolavori assoluti, come «Das klein Franzose» per «Il piccolo francese», dove la Vittorini non c'entra, ma c'entra la negligenza e la sicumera francese di fronte a cui va rivendicata la modestia di Primo che ha avuto verso il tedesco dei complessi per lo piu' ingiustificati fino alla fine della sua vita. Io ce l'ho forse con quel gruppo di pressione? Ma neanche per sogno! La vita consiste nel fare compromessi con gruppi di pressione, e io mi considero fortunato di averne trovato di quelli del tipo di Bocca di Magra, che avevano molti meriti. Ma i compromessi impediscono di dire certe verita' che poi vengono fuori, come quella che Vittorini e sua moglie traducevano da lingue che non sapevano o sapevano male. Nel numero 128 (settembre-ottobre 1997) della rivista «Linea d'ombra» c'e' uno scambio di lettere tra Edda Melon e Paola Di Cori in cui mi si rimprovera blandamente di avere supposto che per la prima volta nella storia sia stata una donna a influenzare le vicende editoriali di un uomo (ma appunto in un orizzonte femminista bisognava bene che ci fosse una prima volta) e, se ho ben capito, si rimprovera a Ginetta Vittorini di avere omesso qualche vacca che c'era nella prima edizione e con cui l'esercito delle vacche avrebbe potuto compiere la marcia su Roma. Secondo me di vacche e di altri peccatuzzi di Ginetta ce n'e' anche troppi. E dovrebbero essere i giovani a tirarli fuori, loro che almeno non hanno bisogno di inchinarsi di fronte ai gruppi di pressione del passato. Invece che cosa fanno? Li riesumano e se la prendono con i sopravvissuti che osano criticarli. Perche' tutto fa brodo.  

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