Dinnanzi alla raccolta di tutte le Poesie di Luigi Ballerini, che Beppe Cavatorta ha sapientemente curato per gli Oscar Mondadori, a me, che lo conobbi cinquant’anni fa in quel paradiso che era allora la via Margutta dei pittori e dei poeti - ci trovammo nella casa-studio di Elio Pagliarani che voleva star solo e così ci toccò di andar via insieme -, viene voglia di cominciare dalla fine, dal precario ma significativo traguardo al quale è giunto dopo tanto «girare dentro il linguaggio», mentre intanto girava anche imperterrito per il mondo.
Apelle figlio d’Apollo, che chiude lo spesso volume, è datato 2015 - ieri cioè - e immagina un dibattito «intorno alla natura e alla funzione del lavoro umano» cui prendono parte personaggi autorevoli -i capi- di ogni tempo e luogo per giungere a qualche chiarificatrice conclusione, e subito convengono che «nella maggior parte dei casi» il lavoro in realtà si riduce «a una semplice occupazione», a un posto cioè che rende difficile «esprimere le proprie aspirazioni».
Saranno gli artisti, che liberi resistono alle «aspettative del mercato», fedeli «alle responsabilità estetiche» di quel che fanno, ad avere un lavoro «per eccellenza», che non tradisca l’impegno costituzionale a garantire a ciascuno l’esercizio della scelta, rispettando le proprie possibilità (art. IV), così il poeta potrà riconoscere il suo «scopo primario» nella «manutenzione del linguaggio e nell’ accrescimento delle sue potenzialità espressive».
Eccoci dunque al punto di partenza da cui Ballerini giovanotto iniziò la sua avventura, dapprima corrodendo quel che restava di una tradizione diventata inerte per misurare l’abissale distanza tra cose e parole e svelare le arti della menzogna consolatoria, ritrovando quel senso smarrito che dovrà finalmente riemergere a conclusione di tante ricerche e di tanti sforzi, e poi con sicurezza per provarsi a dire senza cancellare l’indicibile, che comunque resiste, oppure -ripetendo l’autore e, prima di lui, Cavalcanti- resistendo all’approssimarsi della morte con la forza fragile ma viva e tenace dell’amore.
Fin qui i primi due libri del poeta, degli anni ’70 e ’80 -eccetera. E (1972) e Che figurato muore (1988)- e quindi, ritrovando i segnali della memoria avvicinandosi al dialetto milanese, incontaminata lingua dell’infanzia -Che oror l’orient (1991)- Ballerini sviluppa una personale evocazione narrativa che si allontana dal porto verso orizzonti sconosciuti, alla ricerca di un senso originario, senza preoccuparsi del ritorno, anzi proprio prendendo atto che non di esso si tratta, ma del suo rovesciamento o della sua assenza -Il terzo gode (1994).
Quella che a me pare la sua opera più alta e compatta -il poemetto Cefalonia (2005)- si confronta senza difese con i fatti, seppure andando subito oltre per trovare risposta alle molte domande che essi sollevano, ma confrontandosi con l’orrore della modernità, con la malvagità della storia, a partire dal dopo, per svelare le menzogne che intanto li hanno celati, misurandone la resistenza nel tempo per giungere coraggiosamente al giudizio, severo e impietoso.
«La poesia - dice suggestivamente in Una dozzina di scherzi+tre (2012)- è un modo di dire che non rimanda ad altro spostandosi di continuo come una farfalla».
Tornando ad Apelle figlio di Apollo, l’arte, dunque, «deve conquistarsi un posto al sole, meritare non di stupire, ma di esserci... deve far pullulare in chi sa guardare (o ascoltare) l’inimitabile desiderio della sua esistenza»: la storia poetica di Ballerini, finalmente evidente in questa raccolta complessiva, a me pare che esemplarmente riassuma quella tormentata di una generazione che ha visto a lungo andare sprecati i suoi sforzi e soltanto alla fine, mentre il crepuscolo avanza con struggente malinconia, ha ritrovato la forza per dire quello che dall’inizio avrebbe voluto, ma non le sembrava possibile.
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