Cultura

Corsi e ricorsi della schiavitù

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Storia

Corsi e ricorsi della schiavitù

  • –di Ehud R. Toledano

Nell’agosto del 2014, circa un mese dopo la proclamazione del sedicente Califfato, le forze dello Stato islamico (noto anche come Is, Isis, Isil o Daesh) conquistarono la città di Sinjar, nel nord dell’Iraq. Decine di migliaia di yazidi, la maggioranza della popolazione, furono dichiarati setta eretica, e gli esperti di diritto del Califfato decretarono che fosse legale ridurre in schiavitù le donne yazide, qualunque età esse avessero. Nei mesi seguenti, oltre 100mila rifugiati yazidi fuggirono sul monte Sinjar, dove subirono l’assedio dei combattenti dell’Is fino a quando le forze curde, col sostegno dell’aeronautica statunitense, ne portarono in salvo la maggior parte. E tuttavia, a partire dalla fine del mese, l’Onu e altre organizzazioni umanitarie ricevettero rapporti attendibili che descrivevano nel dettaglio la cattura, la riduzione in schiavitù e la distribuzione di migliaia di donne e ragazze yazide. Queste venivano assegnate o vendute a uomini dell’Is come mogli, concubine o semplicemente schiave sessuali. Abolita da un secolo nella regione, la schiavitù ricompariva, legalizzata, nei territori sotto il dominio del Califfato in Iraq e Siria.

Non vi è momento nella storia in cui l’uomo non abbia ridotto i propri simili in schiavitù. Quasi tutte le civiltà, in una fase o nell’altra del proprio sviluppo, hanno sanzionato legalmente l’asservimento di esseri umani ad altri, e così hanno fatto tutte le religioni, monoteistiche e non. In questo contesto, le società musulmane non rappresentano un’eccezione: gli ultimi tre grandi imperi, quello ottomano in Medio Oriente e nei Balcani, quello qajar in Iran e quello moghul in India hanno approvato la schiavitù, applicando la shari'a per regolamentare il trattamento degli schiavi. Questi erano costretti a prestare una varietà di servizi, da quello domestico alla raccolta delle perle, dal lavoro nelle miniere a quello nei campi. Il reclutamento forzato avveniva in giovane età, e i servi destinati a divenire alti funzionari nella burocrazia civile e militare provenivano principalmente dall’area balcanica. Ciascuna mansione comportava differenti doveri, differenti ambienti di lavoro e differenti rapporti coi padroni, ma tutti questi uomini e donne condividevano l’assenza di libertà e una severa restrizione dei propri diritti. Il tutto era sanzionato dalla legge.

Dal XIX secolo la tratta atlantica degli schiavi subì un graduale arresto, e la schiavitù fu abolita in Europa e nelle Americhe. Le potenze europee, con in prima fila la Gran Bretagna, iniziarono a far pressione sugli imperi ottomano e qajar affinché intraprendessero lo stesso cammino. Intorno alla metà del secolo questi posero fine alla tratta degli schiavi africani attraverso i loro confini, ma fu soltanto con il collasso dei due imperi e con l’ascesa degli Stati successori moderni che la schiavitù in sé vi fu abolita. Per quanto da allora essa si sia ripresentata tale e quale a prima in molte società, dal punto di vista del diritto è scomparsa dal mondo civilizzato. Il rovesciamento di questa realtà da parte dello Stato islamico rappresenta dunque un disastroso passo indietro, un ritorno ai giorni bui dell’umanità.

Con la decisione di riportare in vita, ostentandola con orgoglio, l’efferata pratica della schiavitù, le autorità legali e teologiche dell’Is affermarono di limitarsi ad applicare la shari’a e le usanze delle prime comunità islamiche. Anche qui, come per altri ambiti della vita quotidiana, si assiste al rigetto di un millennio di sforzi esegetici per adattare gli insegnamenti del Corano e della vita del Profeta all’evolversi della realtà sociale. L’Islam ha senza dubbio autorizzato la schiavitù, ma la ha anche regolamentata da un punto di vista legale, a protezione delle vittime. L’affrancamento dopo alcuni anni di servizio era incoraggiato, e considerato atto meritorio. Le vie per l’emancipazione erano numerose. In maniera analoga, alle concubine veniva garantito di non poter esser rivendute se incinte, e alla morte del padrone ottenevano la libertà. I figli di queste unioni, se riconosciuti dal padre, erano anch’essi uomini liberi. In queste società schiaviste, l’integrazione era un fenomeno diffuso.

Queste ultime due misure garantivano la costante riduzione del numero di schiavi: si rivelavano dunque necessarie nuove vie per soddisfare una domanda constante e inflessibile. Fino a quando vi riuscirono, gli Stati islamici si procurarono schiavi per mezzo delle conquiste. Tuttavia, una volta esaurita la spinta espansionistica all’inizio del XIX secolo, essi dovettero acquistare e importare schiavi dai trafficanti che imperversavano nelle fragili società ai margini degli imperi musulmani. Lo Stato regolamentava il traffico degli schiavi, i listini dei prezzi erano pubblici e dazi doganali venivano riscossi nei luoghi di transito. Nello stesso periodo, tuttavia, il numero dei funzionari militari e civili fu fortemente ridotto, anche se alcuni di loro conservarono posizioni di prestigio fino alla fine del secolo.

Nel corso dell’Ottocento, un’intricata rete di traffici per terra e per mare riversò centinaia di migliaia di schiavi africani, circassi, georgiani, greci e russi nei territori ottomani e qajar. Con la graduale applicazione dello Slave Trade Act del 1807, parte di questa “merce umana” fu dirottata dai mercati atlantici a quelli mediorientali e nordafricani, facendo confluire ogni anno nell’impero ottomano circa 15mila uomini e donne di origine africana, ai quali vanno aggiunti circa 3mila provenienti dal Caucaso. Si trattava perlopiù di donne destinate ai servizi domestici degli harem delle élites urbane. La schiavitù agricola era scomparsa nel XVII secolo, ma fu reintrodotta per un breve periodo in due occasioni: nell’Egitto ottomano negli anni Sessanta dell’Ottocento per la coltivazione del cotone, e quando famiglie di agricoltori circasse entrarono nell’impero dopo la pulizia etnica orchestrata dai russi del Caucaso intorno alla metà dello stesso decennio. I mercati degli schiavi erano stati aboliti venti anni prima, e la tratta degli africani nel 1857, ma il traffico continuò per vie private – anche nell’harem imperiale – fino alla fine del secolo. Nel 1904, il registro degli eunuchi imperiali conteneva le informazioni biografiche di non meno di 196 persone.

Oggi il traffico degli schiavi viene studiato come una forma di migrazione forzata o coatta. Questo approccio ci permette di comprendere meglio i movimenti non volontari di popolazioni. Mentre le migrazioni “ordinarie” del passato e del presente sono caratterizzate perlopiù da fattori di “push and pull” (spinta – o espulsione – e attrazione), questi sono in gran parte assenti in quelle forzate. Comuni invece a tutti i tipi di migrazioni, volontarie e coatte, sono questioni importanti come la recisione dal proprio milieu socio-culturale, l’integrazione nelle società “ospiti”, la nascita di comunità della diaspora, e la gestione emotiva del trauma dello sradicamento. La situazione dei rifugiati e delle vittime di pulizie etniche (come coloro che giungono in questi giorni in Europa dal Medio Oriente), privati dei loro diritti e della loro stessa umanità, non è dissimile da quella degli africani e dei caucasici ridotti in schiavitù dagli imperi qajar e ottomano nel XIX secolo.

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