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Igor Mitoraj, principe del foro

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Arte

Igor Mitoraj, principe del foro

Nel Foro, il Centauro e l’Ikaro blu; Dedalo invece nel Tempio di Venere, e poi il Centurione nelle Terme Stabiane e l’Ikaro alato nel Foro triangolare: una trentina di sculture di Mitoraj abitano, da oggi fino all’8 gennaio prossimo, i luoghi più famosi e suggestivi dell’antica Pompei, allacciando con le sue strade e le sue piazze un dialogo fondato su una palpabile affinità emotiva e concettuale.

Le figure solo apparentemente apollinee di Igor Mitoraj portano infatti in sé il germe della corrosione, e i segni della corruzione delle loro forme all’apparenza perfette: ridotte a frammenti, a corpi monchi, mutilati, screpolati, bendati, esse mostrano la fragilità e la caducità di quegli eroi e di quelle divinità che coloro che li crearono credevano invece incorruttibili. E le rovine di Pompei, una città “interrotta”, non diroccata dal trascorrere del tempo ma stroncata in poche ore, nel pieno della sua fioritura, da un’immane e imprevedibile catastrofe, comunicano l’identica sensazione di precarietà e di provvisorietà dell’esistere che è connaturata a quelle figure. E che segna più che mai il nostro tempo.

È esattamente questa comune natura, penosa e dolente, la causa della scintilla che scocca fra le sculture di Mitoraj, le rovine di Pompei e il nostro tempo; la ragione dell’“inattuale attualità”, se così si può dire, di quelle figure dalle forme classiche e armoniose, portatrici però dello stesso sentimento d’insicurezza e d’instabilità da cui tutti, oggi, siamo attraversati.

La mostra Mitoraj a Pompei è scaturita da un lontano colloquio tra l’artista ed Emmanuele F.M. Emanuele, presidente della Fondazione Terzo Pilastro-Italia e Mediterraneo (che ha ideato e promosso l’attuale manifestazione con la galleria Contini). All’inaugurazione dalla sua grande mostra nella Valle dei Templi di Agrigento, l’artista confidò al suo interlocutore di desiderare da tempo di vedere le proprie opere esposte negli scavi di Pompei, ai suoi occhi il luogo più adeguato a ospitare la sua arte. Cinque anni dopo il sogno dell’artista si è realizzato, sebbene Mitoraj, scomparso nel 2014, non possa più goderne.

L’artista era comunque stato profetico: le sue opere, esposte negli scavi dell’antica Pompei, si arricchiscono di ulteriori significati, potenziate come sono dalla magia del luogo.

Si parla spesso, a proposito dell’arte di Mitoraj, di nostalgia di una bellezza perduta. In realtà, sembra trattarsi, piuttosto, della nostalgia per un’età (per altro feroce) che la distanza temporale, non meno della sua arte dai perfetti e armoniosi equilibri (“classici”, appunto), ci fa oggi apparire come un’età aurea.

È la sua stessa biografia, del resto, a spingere in questa direzione: nato nel 1944 a Oederan, nella Germania nazista, da un padre francese prigioniero di guerra e da una madre polacca, deportata e condannata ai lavori forzati, a guerra finita, Mitoraj sarebbe tornato con la famiglia in una Polonia devastata dai nazisti (più che mai nella sua componente ebraica), vulnerata dalla presenza del campo di concentramento di Auschwitz e oppressa dal regime sovietico che, tra l’altro, imponendo il “realismo socialista”, avrebbe frustrato anche i suoi ideali d’artista d’avanguardia. A salvarlo fu Tadeusz Kantor, artista e regista sperimentale, suo maestro all’Accademia di Belle Arti di Cracovia, che era solito mostrare ai suoi allievi non i dipinti celebrativi di Alexandr Dejneka o di Petrov-Vodkin, ma l’opera di Yves Klein, Roy Lichtenstein, Mario Merz, Andy Warhol. E che a lui, intuendone il valore, suggerì di lasciare Cracovia se voleva «creare qualcosa d’importante».

Mitoraj lo ascoltò e nel 1968 era a Parigi, all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Di qui si spostò in Messico, dove scoprì l’arte precolombiana, poi in Grecia, sua vera patria del cuore, poi in Italia, dove trovò casa e studio a Pietrasanta (pur conservando una base anche a Parigi), all’ombra delle Apuane e di Michelangelo. Anche il de Chirico metafisico, con le sue statue solitarie come relitti, lo segnò profondamente, radicandolo nell’immaginario più antico del mondo mediterraneo, di cui il pittore, greco di nascita e di prima formazione, si sentiva erede. Da questa miscela di stimoli culturali, innestata sulla ferita lasciatagli dagli eventi della sua prima gioventù, è nato il suo linguaggio espressivo del tutto personale, per nulla assimilabile ai revival degli Anacronisti e dei Citazionisti degli anni ’80, perché nutrito di un sentimento tragico della storia. È sufficiente osservare l’Ikaro blu, 2013, adagiato nel Foro, o il Torso di Ikaro, 2002, che pare il guscio vuoto di una grande creatura marina spiaggiata, per avvertire il sentimento di naufragio della storia che accompagna tutto il suo lavoro, mentre le teste dormienti, spesso bendate, ci rammentano in forma allegorica l’abisso temporale che ci separa irrimediabilmente da quell’età.

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