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Il Leone camaleontico

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Danza

Il Leone camaleontico

Voce roca, di ruggine, e immancabile volto bambino, e senza trucco: ecco Maguy, la resoluta, la fuggiasca; il decimo Leone d’oro dell’imminente Biennale Danza. Un premio ecumenico e non solo, per il quale, il direttore-coreografo Virgilio Sieni lascerà di sé un ricordo nobile. Ha infatti scelto di assegnare, all’inizio della sua nuova avventura, filosoficamente titolata Senza il mio corpo lo spazio nemmeno esisterebbe(17-26 giugno), l’ambito felino d’oro alla coreografa forse più lontana da sé: una leggenda della nouvelle danse anni Ottanta, ribelle politicamente in una carriera tutta repentine svolte ad angoli retti. Geniale camaleonte, Maguy non è mai stata uguale a se stessa.

Con lei il pensiero corre veloce, quasi istintivamente, prima a Maurice Béjart e poi al suo folgorante May B. (Forse Beckett), lo spettacolo-rivelazione del 1981. Ancora in tournée nel 2009, le è valso una duratura fama mondiale, e all’epoca, il soprannome di “Pina Bausch francese”. Peccato che questa minuta ballerina- coreografa dalle punte forti e dai giri perfetti, evocando l’universo beckettiano lungo il filo rosso di Aspettando Godot e Finale di partita (resi però più patetici che non ineluttabili, più accorati che insolvibili o sospesi) non volesse spogliare l’interprete di danza delle sue vesti teatrali come i fautori del Tanztheater, oppure rivedere le regole spazio-temporali dello spettacolo coreutico, e ragionare sulle forme del movimento in quanto tali e per se stesse (una ricerca verso la quale si sarebbe invece orientata a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, con opere spoglie, come Waterzooi, e fortemente destinate all’abc gestuale). Caso mai provava a offrire, riuscendoci a meraviglia, e con turgida e sfaccettata fantasia, un’immagine danzante “iper-teatrale”. Il suo neo-espressionismo alla Ensor puntava a una trasformazione dell’interprete, ad un etico mascheramento in vista di un urgente disvelamento umanistico.

I reietti sbuffanti e soprattutto contraffatti dalla gommapiuma di May B. somigliavano davvero alle tragiche presenze del teatro di Tadeusz Kantor perché come loro apparivano “inghiottiti” nel gioco di una rappresentazione di tipo figurativo. May B. fu anche l’inizio di un percorso sempre più esasperatamente barocco, urticante (Hymen, Calambre) e aggressivo nella ricchezza dei costumi (tutti della fedelissima Monserat Casanova) e dei trucchi a effetto (anche nei superbi Sette peccaticapitali), volto a risvegliare e a stanare i sensi assopiti, a scuotere le certezze dello spettatore della danza, di solito appagato dall’ “innocua” presenza di ballerini lindi, perfetti, in calzamaglia, formali, indolori, insapori. Ribolliva nell’animo dell’ancor giovane coreografa di Tolosa ma di origini spagnole - anche autrice del misterioso Eden (1986) tutto eretto in verticale e con corpi appesi a un muro, di cui la Biennale Danza 2016 presenterà Duo d’Eden - una sorta d’ irrequietezza nei confronti del successo, dei ricchi panneggi, delle tournée continue, del lavoro del danzatore ma anche del creatore in routine.

Lei aveva escogitato di tutto, inclusa una fantastica Cenerentola/Cendrillon per il Lyon Opéra Ballet, incastonata in una casa di bambolotti teneri o grotteschi e malvagi, ma solo nel passaggio dalla residenza di Créteil al periferico e degradato suburbio della Vellette di Rillieux-la-Pape, alle porte di Lione, avrebbe trovato quiete. Paradossalmente tra le urla continue, i vandalismi e le violenze di un quartiere in guerra contro il suo centro di danza, Maguy ritrovò poco alla volta il silenzio interiore necessario per ricercare. Danza e musica, danza e respiro, danza e parola: le opere del Duemila sono all’inizio “minimaliste in ritardo”, come Umwelt, Ha!Ha! e soprattutto Turba, ispirato al De Rerum Natura. Lì, nell’inventiva ruvida e imprevedibile, si era davvero riaccesa una scintilla vitale, assieme a un nuovo Beckett statico, inerme, diametralmente opposto a May B., quello dei rantoli estremi di Worstward Ho, impaginato in un assolo incantatorio non più latore di immagini e memorie, bensì di lacerti di senso svaporante assieme ai piccoli gesti di un corpo/coperta gettato su di un giaciglio.

Nel 2009, con Description d’un combat, Maguy Marin viene contestata, almeno in Italia. Ormai, in questa sua Iliade non si danza più, si passeggia restituendo con grande fedeltà il testo omerico e in varie lingue, ma sussurrate, biascicate, ritmate. Lo spettacolo è di sconvolgente bellezza ma difficile, a Bolzano gli spettatori pretendono la resa dei biglietti... Combat, davvero, per la soddisfazione della coreografa che già pensa a un’ennesima migrazione. Salves e Nocturnes, due nuovi chef d’ouvre, questa volta senza proteste, nascono a Tolosa. Maguy è rientrata nella città natale per restare accanto a madre, figli, famiglia: fonda un nuovo centro. Il resto è storia recente: la storia del nuovo trasferimento a Sainte-Foy- lès- Lyon, in un centro chiamato “ramdam” e di BiT, sessanta minuti dedicati alla gioia della vita, del tempo storico e anche delle sue infamie. Qui si ritorna a danzare una sorta di sardana in catene aperte e svincolate su e giù per lastre alte e oblique come montagne. Meraviglia. Peccato non rivederla a Venezia.

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