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Il Niagara travolge Baricco

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Teatro

Il Niagara travolge Baricco

Come il fortunato Novecento, il suo primo testo teatrale, anche Smith & Wesson di Alessandro Baricco si svolge agli albori del secolo scorso, quasi una sintesi, un presagio dell’epoca a venire. Come Novecento, evoca una piccola epica del fallimento, là l’incapacità del sommo pianista di lasciare la nave su cui è nato e vissuto, per affrontare il giudizio del mondo, qui il tentativo di una giovane giornalista di discendere le cascate del Niagara in una botte. Il primo trovava se stesso soltanto sul mare, la seconda si cerca sfidando le rapide, entrambi a confronto con le forze della natura. Le assonanze tra quella creazione del ’94, tradotta anche in film da Giuseppe Tornatore, e il nuovo racconto scenico dell’autore torinese, allestito – come l’altro - da Gabriele Vacis, in uno spettacolo prodotto dagli Stabili del Veneto e di Torino – sono sottili ma evidenti, così come le differenze tra loro: Novecento aveva infatti i toni di un monologo visionario, Smith & Wesson ha tutti i pregi e tutti i limiti di una composizione a quattro voci, che richiede meno slanci verbali e un andamento più concreto. Il primo era un’accesa partitura di sensazioni, questo è al massimo un agile esercizio narrativo. Le tenui linee prospettiche che caratterizzano la trama si colgono fin dal doppio gioco di specchi suggerito dalle generalità dei due protagonisti maschili: di cognome fanno Smith e Wesson, ma non c’entrano nulla con le armi da fuoco, se non per il destino che li porterà a gestire un tirassegno. Di nome fanno Tom e Jerry, ma il loro legame col gatto e il topo dei cartoni animati si limita al fatto di avere nature del tutto opposte: uno – accusato di truffa in vari Stati - è un geniaccio della meteorologia che compila bizzarre statistiche sul tempo raccogliendo i ricordi personali della gente, l’altro ripesca i cadaveri dei suicidi dalle cascate. A porli di fronte all’inconcludenza delle loro esistenze è la ventitreenne Rachel, determinata a lanciarsi nella folle impresa per ricavarne un articolo da prima pagina da mandare al suo direttore, che l’ha sprezzantemente messa da parte. Smith dovrà inventare il riparo che la protegga nel grande salto, Wesson, conoscitore delle correnti, dovrà individuare il posto giusto per tirarla fuori. L’esito – tragico - del progetto non verrà rappresentato, ma potentemente descritto da una testimone, la vedova Higgins, proprietaria dell’albergo locale e tessitrice dei rapporti fra gli altri tre personaggi.

Baricco consegna a Vacis un materiale alterno, qua e là brillante ma nell’insieme piuttosto fragile. L’inizio, con l’incontro fra Smith e Wesson e le loro buffe discussioni sulle rispettive filosofie di vita, è promettente, il finale, coi due che diventano i cantori delle gesta della ragazza nel loro baraccone da fiera, non è male. Ma tutta la parte centrale, quella relativa alla preparazione dell’impresa, è statica, senza sbocchi, e invano il regista si prodiga a ravvivarla con proiezioni e immagini fotografiche. Non saprei dire, francamente, se è la vicenda che non cresce, o se è la figura di Rachel a risultare di per sé inconsistente, quella che in gergo si definisce una tinca. O forse sono valide entrambe le ipotesi. L’azione ruota attorno all’impianto scenico ideato da Roberto Tarasco, la metaforica casetta-gabbia ribaltabile di Wesson, che, sospesa nell’aria, in vorticosa rotazione, diventa anche il barile di birra dentro il quale Rachel va incontro alla sua sorte. Nello spettacolo presentato al Teatro Goldoni di Venezia, svelto, essenziale funzionano soprattutto i due ameni ritratti delineati da Natalino Balasso, uno Smith dal linguaggio forbito, un po’ sapiente e un po’ cialtrone, e da Fausto Russo Alesi, uno Wesson più ruvido e scostante. Mariella Fabbris, attrice storica di Vacis, affronta alla grande il lungo soliloquio della vedova Higgins, mentre Camilla Nigro dà un fresco risalto all’evanescente Rachel.

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