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La leadership di Dossetti

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Economia e Società

La leadership di Dossetti

È un tema complesso quello che Paolo Prodi affronta in questo volume che è al tempo stesso un lavoro di memorie personali e di inquadramento di un percorso molto particolare della storiografia e, più in generale, di un settore della cultura italiana. Si tratta di una storia oggetto di una lunga diatriba di ricordi negli ambienti che ha interessato, ma certo non semplice da capire per chi non ha vissuto in quegli ambiti e, temiamo, difficilmente comprensibile da generazioni più giovani.

Eppure si tratta di un libro importante perché ricostruisce il percorso di una generazione di uomini e donne che hanno avuto un ruolo fondamentale: sono coloro che si sono riuniti a vario titolo e con vari tipi di legame alla leadership di una figura difficile e, se il termine non viene inteso male, contorta come è stata quella di Giuseppe Dossetti.

Paolo Prodi lo conosce alla fine degli anni Quaranta nella Reggio Emilia che è la “patria” di entrambi, lui studente di liceo, l’altro già leader politico affermato. Mi verrebbe da scrivere che Dossetti lo attrae nel suo vortice, ma senza riuscire a plasmarlo del tutto. Gli trasmette il senso della responsabilità interpretativa dello studioso in rapporto alle crisi in cui vive, responsabilità a cui deve rispondere da cristiano. Non riesce però a metterlo completamente al servizio della compenetrazione tra riflessione sulla storia e ascesi personale nel servizio alla teologia.

Prodi si forma da storico, soprattutto con Hubert Jedin a Bonn, ed entra nel Centro di documentazione di Bologna che è la prima “officina” che Dossetti ha fondato dopo il suo ritiro dalla politica. E qui si scontra, come è documentato dettagliatamente nel libro, con l’ambiguità del luogo, che è al tempo stesso sede di studi «per capire» e di scelte di vita «per testimoniare». È una convivenza difficile che si dialettizza non solo nel rapporto con il fondatore, che in fondo segue la sua strada personale sostanzialmente indifferente, allora come sempre, ai travagli dei suoi seguaci (una dimensione su cui qualche riflessione andrebbe fatta), ma nella dialettica con l’altro discepolo forte, cioè Giuseppe Alberigo, lo storico che non viene da una tradizione culturale, ma da una tradizione militante e che inevitabilmente punta ad assumere la posizione del «ferro di lancia» del dossettismo come ideologia.

Nella vicenda del coinvolgimento di tutti nell’avventura della riforma del Vaticano II le tensioni fra le due posizioni passano momentaneamente in secondo piano, ma rinascono inevitabilmente a Concilio concluso. La cultura cattolica non potrà più essere quella degli uomini della fase ultima di Pio XII e della grande assise della chiesa, perché si porrà il tema se monumentalizzare il concilio rivendicando a sé un ruolo di custodi del suo lascito o se proseguire nel tormento di una ricerca del senso della crisi della modernità.

È qui che, come viene ricostruito con ricchezza di documenti che provengono dall’archivio privato dell’autore, il contributo del tormentato grande monaco emiliano dà vita ad una scissione di prospettive. Da un lato l’istituzionalizzazione del mitico “Centro” in un “Istituto per le Scienze Religiose” che continua a produrre, sotto la guida di Alberigo, un vivaio di intelligenze fra cui si ripeteranno, almeno per una certa fase, le tensioni dissolutive dei tardi anni Sessanta. Dal lato opposto la creazione da parte di Prodi a Trento dell’Istituto Storico Italo Germanico, dove, in un contesto che esclude la “militanza” culturale, si riprende in forme laiche la grande riflessione sul significato complessivo della modernità nel suo trionfo e nella sua crisi.

Dossetti lascia fare e, nonostante le chiamate in causa da parte di Prodi, non si schiera, dando l’impressione ad ogni interlocutore che lo interpella di condividere le critiche che ciascuno fa all’altro. Certo, come l’autore mostra in un denso capitolo finale, l’ultima fase del grande monaco torna in maniera nuova su quel mistero della svolta storica in cui si vive a fine millennio senza pensare che sia risolvibile con una qualche, pur coraggiosa, “nuova riforma”. Ma qui comincia, sembra di capire, un’altra storia.

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