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Maestri moderni tra gli scavi

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Arte

Maestri moderni tra gli scavi

Pompei, il mito, “il sogno della vita” per Igor Mitoraj, che da sempre desiderava far dialogare le sue imponenti sculture mitologiche con la città vesuviana. Forse anche perché finora Pompei era stata impenetrabile, come se le sue mura la proteggessero saldamente dal contemporaneo. Nessun artista moderno vi ha messo piede e di certo in molti l’hanno agognato. Solo William Cobbing nel 2007 è riuscito a piazzare nella Regio VI un tombino del suo Gradiva Project: quell’immagine di fanciulla che, pur non provenendo da Pompei ma da Roma, nel 1903 ha infiammato la fantasia pompeiana di Wilhelm Jensen, e ancor più di Sigmund Freud. Come loro Cobbing ha visto in Gradiva la porta verso un mondo sconosciuto, o verso il nostro inconscio, e Pompei come quel luogo incantato dove veder risorgere il passato, e dove amore e desiderio potevano riportare in vita gli antichi. Prima di lui, negli anni Trenta, Salvador Dalì aveva identificato con Gradiva la donna da lui amata, Gala, e André Masson aveva dipinto Gradiva morente come emblema dell’ideale erotico femminile. Il fondale, rosso, citava esplicitamente la Villa dei Misteri che sarà il riferimento anche dei murales Seagram dipinti da Mark Rothko nel 1958-59. E si è notato che miravano non già a decorare ma a trasformare integralmente gli ambienti proprio come il secondo stile pittorico pompeiano della Villa. Non furono mai installati.

Ma Pompei è mito innanzitutto perché è paradigma di morte e distruzione e dell’iconologia dei disastri, anche quelli causati dall’uomo come la Seconda guerra mondiale, Hiroshima o l’11 settembre. Il suo messaggio è immediato e ci farà sempre tremare, al pensiero che l’orrore potrebbe ripetersi. Così nella serie Vesuvius Andy Warhol ha trasposto in chiave kitsch le cartoline dell’eruzione per mostrare quanto fossero frutto di voyeurismo da catastrofe. La serie fu commissionata nel 1985 dallo stesso gallerista Lucio Amelio che all’indomani del terremoto dell’Irpinia aveva realizzato la mostra Terrae motus con opere di tanti grandi contemporanei, e anche allora non mancò il richiamo al vulcano come nel Vesuvius circle di Richard Long.

Nessuna immagine pompeiana, però, supera per popolarità i calchi delle vittime dell’eruzione. Mostrano la tragedia in tutta la sua drammaticità, e c’è chi per questo li considera vere e proprie sculture contemporanee. Già negli anni Trenta avevano ispirato ad Arturo Martini opere che contrastavano con l'ideale corpo atletico fascista. Ma all’indomani della guerra servirono a palesare i drammi del conflitto e della bomba atomica: le carcasse di César, le figure ibride di Germaine Richier, i cavalli e cavalieri di Marino Marini. E ai nostri giorni le pesanti figure d’acciaio di Antony Gormley, memento della fine dei tempi.

Diverso è invece l’intento di The dog from Pompeii di Allan McCollum (1991). Colto dalla morte in una posa di drammatica sofferenza, il cane non fu la prima scelta dell’artista. Avrebbe preferito una pagnotta o una cassettiera, ma non ottenne il permesso di riprodurle. Perché in realtà lui voleva mostrare come noi usiamo i reperti per interagire col passato: il nostro ripetuto e malinconico tentativo di recuperare ciò che mai potrà tornare in vita. Pompei è anche questo: consapevolezza che, nonostante tutto, il vero passato ci sfuggirà sempre.

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