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Dubbio. Così si intitola la mostra di Carsten Höller all’Hangar Bicocca e così potrebbe intitolarsi il suo intero percorso artistico: ricordiamo come in una delle sue prime apparizioni italiane, ai cantieri della Zisa di Palermo, si entrasse in uno spazio con odore e rumore di galline, senza vederne una. C’erano o no? E alla Documenta del 2002 ci mise davanti a una scrofa che allattava i suoi porcellini. Ma in quel caso, al contrario, ci trovavamo chiusi dietro a un vetro che impediva il passaggio di altri dati sensoriali se non quelli della vista. Per essere certi di non avere visto un film, occorreva uscire dal cinemino allestito per l’occasione.
Nato nel 1961, Höller ha studiato biologia e non ha mai smesso di percorrere i metodi della ricerca scientifica, anche se ogni sua esposizione - questa in particolare, sovraccarica - ha il sapore di un luna park e rientra in quell’estetica relazionale che fa del pubblico una componente essenziale. Ma il lavoro dell’artista, belga di nascita (1961), tedesco per famiglia, svedese e africano per residenza, da sempre mescola divertimento e rigore. Forse la sua è un’arte pre-crisi, che reca i segni dei ricchi anni Novanta. Ma l’esagerazione percettiva a cui ci sottopone, soprattutto se comparata alle mostre più misurate che ebbe alla Fondazione Prada e alla Tate Modern nei primi anni Duemila, racconta anche l’esasperazione dei temi che gli anni dieci ci propongono.
Ci troviamo a entrare in un labirinto e già all’ingresso dobbiamo scegliere da che parte andare: l’itinerario consigliato non c’è, la decisione è tutta nostra e nel prenderla siamo soli. Più soli ancora lo siamo nel buio del corridoio iniziale, dove vengono messe alla prova anche le nostre capacità di stare in piedi correttamente. Poi si arriva in un luogo pieno di bagliori, dove si alternano ambienti specchianti, muri dai pattern fatti per confonderci, una macchina da spingere a mano che trascina con sé enormi funghi come fossero pianeti di un astrolabio, e poi ancora giostre per adulti in cui si arriva a un’estasi fisica che sconfina nella nausea, e infine un paio di letti in cui potremmo anche dormire una notte intera, sapendo che, per il loro moto leggero ma costante, ci sveglieremmo in una posizione diversa da quella in cui ci siamo addormentati. Si può persino volare, legandosi a due imbragature, purché si sia in ottimo stato di salute: qui la paura è garantita, come lo era nei suoi scivoli a tubo ritorto, qui assenti, dove immettere il corpo e lasciarlo cadere senza appigli.
Tutto, tranne i due letti, è visibile soltanto da una parte. Per vedere la parte opposta dei grandi oggetti iperrealisti, quasi tutti luminosi e immersi in una penombra fantasmagorica, dobbiamo percorrere lo spazio espositivo all’inverso: da un lato Höller rende omaggio alla simmetria che connota i corpi viventi, dall’altro ci racconta che non possiamo mai vedere nulla in maniera completa, perché qualcosa resta sempre celato e non ne possiamo ricomporre i pezzi se non attraverso la memoria: è la nostra mente, dunque, il vero laboratorio di montaggio e di creazione di ciò che pensiamo reale.
Gli stati alterati di coscienza sono stati sondati da molti artisti, soprattutto per lavori ambientali: dal nostro Lucio Fontana, il primo, a Gianni Colombo, e poi Bruce Nauman, James Turrell, Douglas Wheeler e altri che hanno oscillato tra ciò che provoca turbamento a ciò che porta serenità. Höller sembra volerci parlare di uno stato sovraesposto, adrenalinico, al limite tra la gioia e il delirio. Ovviamente la generazione a cui l’artista fa maggiore riferimento è quella dei suoi coetanei, e non a caso ha lasciato che un lavoro luminoso proveniente dalla mostra precedente, una Marquee dell’amico Philippe Parreno (2015, parte della mostra Hypothesis) dialogasse con il suo nuovo Yellow/Orange Double Sphere (2016), un dispositivo sospeso e composto da due sfere concentriche che lampeggiano a intermittenza. Il tema del dubitare e ipotizzare come modi per arrivare alla conoscenza, del resto, sembra essere centrale per la direzione dello spazio milanese, in mano a Vicente Todolì che firma anche questa mostra.
I funghi allucinogeni, i corridoi di lampadine accecanti, il gioco infantile e ingannevole dei colori, dunque, ci trascinano in un vortice di stimoli, ma nessuno di questi è privo di un legame con temi scientifici: quali sono i limiti della sensazione? Quali sono i fattori che la alterano? Cosa induce il nostro corpo a secernere sostanze che portano all’attenzione, all’attrazione, alla distrazione, alla perdita dell’orientamento e al suo recupero? Quando possiamo fidarci dei nostri sensi e quando invece ci ingannano? E se ci ingannano, dovremmo non tenerne mai conto?
Già, perché il testimone che ha sbagliato una volta può sbagliare di nuovo. Lo asserirono già gli antichi scettici greci, correggendosi però immediatamente. i dati empirici, ciò che ci fa sbagliare nel cogliere l’essenza del mondo, sono comunque l’unica via che abbiamo per entrarvi in contatto. Quindi occorre sapere affrontare l’incertezza e affidarsi – come insegnava Carneade – all’idea di probabilità. Solo questa ci salva dal perdere completamente la fiducia nella possibilità non soltanto di percepire, ma anche di elaborare il sapere. È solo su questa base pragmatica, lontana dalle certezze della metafisica, che possiamo vivere con letizia. Purché accettiamo la fatica di essere elastici e non cediamo al bisogno di avere regole immutabili, queste sì fuorvianti. Così il discorso, inizialmente ludico e scientifico, si muove anche verso suggerimenti di etica personale e sociale, nonché verso una visione compassionevole dell'intera esistenza.
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