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Preservare il latino è ripensarlo

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Preservare il latino è ripensarlo

Ispirato a Virgilio. «Un’ègloga»  (1890) di Kenyon Cox
Ispirato a Virgilio. «Un’ègloga» (1890) di Kenyon Cox

Accostarsi a una lingua antica è molto diverso rispetto allo studio di una qualsiasi lingua moderna: non in sé, perché anche una lingua moderna si presterebbe a tutte le riflessioni metalinguistiche e ai ragionamenti affrontati dagli alunni che si cimentano nella classica versione di latino o di greco. Ma è ovvio che le lingue moderne si studiano a scuola soprattutto per raggiungere una piena padronanza comunicativa da spendere nell’interazione con altri interlocutori. Diversi sono i tempi, i ritmi e anche gli scopi con cui affrontiamo un testo latino o greco. Qualche anno fa Gian Luigi Beccaria ha scritto un Elogio della lentezza (Aragno, 2003), vista come condizione preliminare rispetto a qualsiasi lettura disinteressata; e non sarà casuale che un volumetto dallo stesso titolo sia apparso nel 2014 per il Mulino ad opera del neuroscienziato Lamberto Maffei, che ha illustrato i vantaggi di una civiltà che valorizzi la riflessività e il pensiero lento, funzionali alla fisiologia dei meccanismi cerebrali umani.

Latino e greco si studiano perché offrono la possibilità di confrontarci con un sistema linguistico e culturale che è insieme molto vicino e molto distante. Distante per l’intervallo storico e il mutamento degli orizzonti ideologici, ma tuttavia vicino per il suo innegabile carattere fondativo della civiltà occidentale e per il continuo ripullulare dell’immaginario classico nella esperienza delle generazioni moderne: l’umanesimo inteso come ciclico ritorno alle fonti della latinità e in genere ai miti del mondo classico è, com’è noto, una costante della storia occidentale, dall’alto Medioevo in avanti. Pensiamo soltanto alla fortuna del neoclassicismo architettonico, anticipato da Palladio, in area anglo-americana nel Sette e Ottocento o alla presenza della mitologia greca, attraverso la rilettura delle vicende di Edipo, di Narciso o del Minotauro, operata alla fine dell’Ottocento dalla psicoanalisi, ossia da uno dei più tipici paradigmi epistemologici della rivoluzione novecentesca. Se tutto questo è vero, tornando alle specifiche ricadute sulla scuola, occorre rivedere la corrente gerarchia scolastica, che pone al vertice la prova di versione. Gli inconvenienti sono noti. Si riduce oltremodo la lista dei testi da proporre, sacrificando ad esempio brani poetici o testi postclassici, anche se culturalmente decisivi. Si svilisce, in una prospettiva angusta (nam tradotto invariabilmente con “infatti”) o francamente errata (l’infinito aoristo tradotto meccanicamente come un infinito composto, quando la differenza sta nell’aspetto dell’azione), un’operazione, quella della traduzione, che potrebbe dare il meglio di sé confrontando traduzioni d’arte di grandi testi della classicità. Ma l’inconveniente principale sta in un soverchiante apparato grammaticalistico fine a sé stesso: non si parte dal testo in quanto tale, come sarebbe necessario, ma si cercano testi che illustrino le regole di volta in volta esposte nella teoria.

L’apparato teorico dovrebbe invece essere ridotto al minimo, specie in quei corsi di studio (il liceo scientifico tradizionale, il liceo linguistico, il liceo delle scienze umane) in cui il latino è marginale, sia come monte ore sia, quel che più conta, nella percezione degli alunni che li frequentano. Permettetemi un esperimento, per il quale basterebbe assicurare agli alunni la conoscenza delle prime tre declinazioni (la quarta e la quinta hanno un rilievo secondario già nel latino classico e potrebbero persino essere tralasciate, un po’ come avviene, non da oggi, col duale nei corsi di greco), le coniugazioni attiva e passiva, la declinazione pronominale.

Come oggetto ho scelto, com’è giusto, un grande classico, presente nella memoria non solo di tutti i laureati in Lettere ma anche degli adulti che abbiano alle spalle un buon liceo: la prima ecloga di Virgilio. Il verso iniziale è famoso: «Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi», «Tu, Titiro, sdraiato sotto la copertura di un grande faggio». Privilegiamo “la lettura lenta”. Le parole di Virgilio fanno emergere i rapporti con altre forme corradicali e con il lessico italiano. Patulus ha la stessa radice di patere “essere aperto” (di qui l’aggettivo italiano patente “chiaro, evidente”; e la familiare patente, da un’anteriore lettera patente “documento che dà pubblica legittimazione a un comportamento”: oggi, per antonomasia, la guida di un veicolo) ma anche di patibulum, la forca eretta in luogo pubblico perché il supplizio del reo fosse di ammonimento generale. Recubare è composto di cubare, che continua nel nostro covare e dà vita a una ricca costellazione semantica: dal concubino “che giace insieme” con chi non dovrebbe, all’incubo, lo spirito maligno che si credeva gravare sul petto del dormiente, al cubicolo, la stanza da letto nell’antica casa romana. Tegmen ha la radice di tegere “coprire” e dunque appartiene alla famiglia di tetto, tegola, teglia e, anche, con apofonia, di toga, originariamente “veste” per entrambi i sessi, prima di specializzarsi come indumento maschile. Dal lessico alla morfologia. Fagus è femminile in latino, come in genere i nomi di piante, a partire da arbor (di «odorata arbore amica» parla Foscolo nei Sepolcri, ed è uno dei tanti esempi della pressione del modello latino sull’italiano letterario).

La notazione può servire anche per far riflettere sull’impredicibilità del genere nei nomi “non animati” e dunque sulla variabilità intrinseca delle lingue: non c’è nessuna ragione per cui in tedesco il “sole” sia femminile e la “luna” maschile (die Sonne, der Mond) o, all’interno delle lingue romanze, il “fiore” sia maschile in italiano e femminile in francese, il “sale” maschile in italiano e francese, ma femminile in spagnolo. Naturalmente, non è pensabile che l’intero testo sia sottoposto a un esame così minuzioso. Ogni insegnante valuterà che cosa dire e fin dove spingersi. Quel che è certo è che questo tipo di operazione non è semplificante rispetto al tradizionale approccio grammaticale-sintattico ed è forse più efficace per suggerire il senso del classico. Pensare di continuare a insegnare il latino come si è sempre fatto non è possibile, ed è inutile stracciarsi le vesti: meglio, invece, cogliere questa occasione per pensare a rinnovare il modo di proporre i testi della classicità. E accanto a Virgilio, e in genere alla letteratura degli scrittori che Aulo Gellio definiva appunto classici, credo di debba fare spazio al latino dei Vangeli, un testo indubbiamente decisivo tra quelli scritti, o almeno divulgati in Europa occidentale in latino. Ma di Vangelo a scuola si parla solo nell’ora di religione. Perché? Proprio l’accentuata secolarizzazione della società, in cui i cristiani sono una minoranza, rispetto a una maggioranza costituita da agnostici e da fedeli di altre religioni, dovrebbe rendere più libero l’insegnante che voglia proporre il latino dei Vangeli a scuola: è impensabile prescindere, in termini storici, filosofici, artistici e letterari, dal patrimonio rappresentato dal Cristianesimo ed è importante fornirne i presupposti culturali proprio alla maggioranza che ne è distante come scelta individuale di fede. Eliminare, o almeno ripensare le prove scritte di latino non significa necessariamente ridurre il peso del latino come disciplina scolastica. La matematica è una materia molto importante anche nel liceo classico, benché non siano previsti compiti scritti obbligatori. L’Italia ha una tradizione di studi superiori di tutto rispetto che deve essere salvaguardata, anche nella sua componente tipicamente umanistica: ma salvaguardare significa, qui più che mai, ripensare e rinnovare.

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