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Giocare è una cosa seria

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TEMPO LIBERATO

Giocare è una cosa seria

Toscana, 2004 © Ferdinando Scianna/Magnum Photos/Contrasto
Toscana, 2004 © Ferdinando Scianna/Magnum Photos/Contrasto

Giocare significa mettersi in gioco. Significa mettere in gioco il mondo, prenderne le distanze, metterlo tra parentesi, o utilizzare il mondo, la realtà, per inventarne altri, paralleli, che obbediscono ad altre regole, arbitrarie, tanto più precise perché arbitrarie. Per inventare altri noi stessi, personaggi fantastici, che in quel mondo parallelo giocano, appunto, una partita diversa rispetto all’altra, obbligatoria e aleatoria partita della vita. Significa attraversare lo specchio di Alice.

Si può giocare da soli, ma quasi sempre, anche da soli, abbiamo bisogno di trasformare, ricreare la realtà, le cose. Un bastone tra le gambe diventa un destriero, una bambola una bambina viva nella quale riprodurre a modo nostro, in una specie di teatro, i rapporti affettivi, di seduzione, qualche volta anche crudeli, di cui abbiamo bisogno o che ci angosciano.

Ma soprattutto si gioca con gli altri, in competizione con gli altri, a due o in squadre, all’interno di regole condivise che dentro l’universo del gioco ci danno l’illusione di essere più comprensibili, affrontabili di quelle del mondo reale che spesso ci spaventano. Significa cercare di imparare a vivere, a competere, oppure, qualche volta, a rifiutarsi di farlo. Persino imparare a fingere, a barare.

Quando pensiamo al gioco pensiamo quasi sempre ai bambini, ma sappiamo bene che non smettiamo mai di giocare, a qualunque età, e che quasi sempre, per sopravvivere, abbiamo bisogno di vivere la vita stessa come se fosse un gioco. Anche se mai, nella vita, si riesce a recuperare fino in fondo la serietà totale che hanno i bambini quando giocano.

Una serietà contemporaneamente profonda e leggera, che permette al cavaliere mascherato di interrompere di colpo la grande avventura e correre a fare merenda se la mamma lo chiama. Gli adulti, qualche volta, patologicamente, diventano prigionieri e vittime dell’azzardo dei loro giochi e non sanno più uscirne.

Che cosa significa, per un fotografo, fotografare il gioco? In realtà non si può fotografare il gioco, come non si può fotografare l’amore: solo si possono fotografare gli amanti. Quelli che sono in gioco, dunque.

Anche fotografare può essere un gioco. Per me, per fortuna, quasi sempre lo è stato. Nello scegliere, tra moltissime, questa serie di immagini raccolte nel tempo, ancora una volta ho verificato che un fotografo, un reporter come me, in realtà reagisce a situazioni e a forme che in una maniera o in un’altra raccontano, evocano quello che le esperienze della vita hanno depositato nell’immaginario della sua coscienza. Soprattutto nel tempo dell’infanzia.

Nelle poche, o forse troppe, fotografie scelte per questo libro, mi pare di riconoscere un desiderio, forse nostalgico, di ritrovare, nel fotografare persone che giocano, quell’eden, che può anche essere un inferno, dell’abbandono esistenziale a quello che si sta facendo, al presente che si sta vivendo.

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