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Tribù innovative unificate

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Scienza e Filosofia

Tribù innovative unificate

Apprendere significa, in ultima istanza, memorizzare l’esito della risposta data a una situazione imprevista, acquisendo così una nuova capacità di risolvere problemi. Quando la stessa situazione, o un’analoga si ripresenterà l’informazione guadagnata sarà riutilizzata. Per gli epistemologi evoluzionisti, come Konrad Lorenz, Donald T. Campell e Karl Popper, la vita in quanto tale è un processo di apprendimento, cioè di acquisizione di nuova conoscenza. Attraverso la selezione naturale dei fenotipi, la memoria genetica dei viventi immagazzina nel DNA/RNA informazioni sull’ambiente dell’adattamento.

Gli epistemologi evoluzionisti spiegano anchi i processi di crescita della conoscenza c’è un apprendimento cognitivo o culturale, a livello individuale o sociale, sulla base di qualche meccanismo darwiniano analogo alla selezione naturale. Popper scriveva che dall’ameba a Einstein c’è solo un passo: quello che ha consentito di passare dall’eliminazione fisica degli individui per apprendere geneticamente come entrare meglio consonanza con l’ambiente, alla selezione e al progresso culturale delle teorie scientifiche attraverso la competizione ed eliminazione delle ipotesi sulla base del controllo empirico e della critica.

La prova più eclatante che il principio darwiniano della selezione è alla base della creatività o dell’apprendimento innovativo nel mondo vivente, viene dal fatto che esso governa anche il funzionamento dei due sistemi fisiologici adattativi più potenti di cui l’evoluzione biologica ha dotato gli organismi individuali per far fronte agli imprevisti e memorizzare le esperienze: il sistema immunitario e quello nervoso. Come ha dimostrato il «Darwin del Novecento», cioè Gerald Edelman, entrambi basano il loro funzionamento sulla selezione (in tempi somatici) all’interno di repertori di variabilità (cellule, anticorpi, sinapsi, etc.) prodotti spontaneamente a vari livelli dell’organizzazione funzionale, secondo schemi geneticamente predefiniti.

I libri di Lieberman e Gee hanno titoli quasi uguali, e parlano di imprevedibilità, ma dicono cose diverse. Anche perché Liberman è un antropologo cognitivo del linguaggio, e Gee un giornalista di Nature, benché già paleontologo. Quest’ultimo racconta perché siamo una «specie accidentale», nel senso di fortuita, ma anche di non essenziale. Giustamente dice l’evoluzione è un cespuglio e non una scala verso soluzioni sempre migliori, e che ci montiamo la testa credendo ognuno di essere un “io” speciale, mentre è un’illusione. Vero. Ma tale autoinganno è un tratto adattativo selezionatosi per evidenti vantaggi riproduttivi. E dire che è un’illusione non porterà nessuno a decidere di farne a meno. E per fortuna, perché quando accade si diventa matti.

Gee critica, da tempo, gli scienziati perché mettono l’enfasi sulla verità, cioè quello che si conosce, più che su quello che non conosciamo. Ma così confonde il mestiere del giornalista (il suo) con quello dello scienziato. È singolare la supponenza con cui giornalisti e divulgatori scientifici prendono spesso di mira, ricorrendo a un’epistemologia quasi relativista, gli scienziati che rivendicano la superiore affidabilità del metodo scientifico e dei risultati della scienza. Senza rendersi conto che così rinforzano alcuni dei peggiori bias di senso comune su cui fa leva la pseudoscienza.

Il libro di Lieberman è bellissimo sia per chiarezza e ampiezza di vedute sia per gli esperimenti e casi di cui parla e che fanno capire la natura e le basi evolutive delle strutture biologiche dalle quali dipendono le funzioni cognitive superiori umane. In primis il linguaggio, che è il principale oggetto di studio di Lieberman. Purtroppo, quasi a ogni pagina egli deve attaccare la psicologia evoluzionistica, che peraltro presenta in una forma caricaturale, o regolare i conti con Chomsky e la sua scuola. Il chomskismo, fatto di innatismo e formalismo impropriamente imposti a processi biologici fondati sulla variabilità, è certo una recente malattia infantile del razionalismo. Ma alcune dati interessanti li ha tirati fuori. Così come la psicologia evoluzionistica.

Il nucleo del pensiero di Lieberman, come illustra bene nell’introduzione Mirza Mehmedovic, è la tesi che il linguaggio e ogni funzione cognitiva superiore, sono incorporate nell’anatomia e fisiologia degli organi e dipendono da complicate interdipendenze tra strutture cerebrali selezionate nel corso della storia evolutiva. Quindi non possono esistere i geni per il linguaggio. Il linguaggio per Lieberman esiste da almeno 200-250mila anni ed è scaturito da pressioni selettive culturali, per esempio la costruzione di manufatti, che hanno agito attraverso la pianificazione concettuale e il controllo delle funzioni motorie delle strutture per la fonazione, mediati dai gangli della base.

Non esiste una programmazione formale che instanzia il pensiero e il linguaggio, bensì l’apprendimento concettuale della sintassi e della grammatica si autoimplementa sotto la guida selettiva nel corso dello sviluppo della pertinenza sematica dei concetti mentali trasformati materialmente in espressioni sonore. Insieme a una serie di casi clinici ben descritti, gli eleganti esperimenti che Liebermann ha condotto sugli alpinisti che scalano il Monte Everest dimostrano che la grave carenza di ossigeno che colpisce i gangli basali del cervello, che controllano principalmente il movimento, causano anche un irrigidimento concettuale e fanno regredire l’uso del linguaggio, inclusa la comprensione, in queste persone al livello di un bambino di otto anni.

In uno dei suoi libri di maggior successo, L’idea pericolosa di Darwin, Daniel Dennett definì la selezione naturale un «algoritmo» attraverso il quale l’universo si è manifestato e ha prodotto le molteplici e svariate forme viventi che osserviamo. Al di là del fatto che sia appropriato – a mio giudizio no – chiamare algoritmo la selezione naturale, un principio di «selezione universale», teorizzato anche da Richard Dawkins, non è del tutto insensato concepirlo, dato che le leggi delle termodinamica dettano in ultima istanza scelte, rispetto ai cambiamenti possibili di organizzazione della materia.

Nella sua ricerca dell’algoritmo definitivo, Domingos non è inciampato nel libro di Dennett, e discute gli algoritmi genetici o evoluzionistici solo come una categoria particolare, instanziata dalle moderne macchine in grado di apprendere. Queste macchine/algoritmi che apprendono sono all’opera quando facciamo le ricerca in rete o usiamo internet per qualunque cosa, ed egli ne ricostruisce bene la tassonomia: nel panorama del machine laerning, accanto alla “tribù” degli evoluzionisti, ci sono i simbolisti (che lavorano con i simboli e la logica), i connessionisti (che cercano di imitare il cervello), i bayesiani (che usano l’inferenza probabilistica per gestire l’incertezza) e gli analogisti (che lavorano sui gradi di somiglianza fra situazioni).

A ben vedere tutte queste tribù sono già unificate, e non tanto da un algoritmo definitivo, come il software di intelligenza artificiale prgettato da Domingos e chiamato Alchemy. Perché alla fine, anche Alchemy (un programma di apprendimento statistico relazionale e inferenza logica probabilistica basata su catene markoviane) non è che un insieme di procedimenti per ridurre l’incertezza a fronte di una situazione imprevista applicando filtri selettivi a repertori gerarchicamente articolati di possibilità, e assegnando valori alle scelte per conservare una traccia funzionale dei risultati. Non è che di selezione sempre di tratta?

I LIBRI DI CUI SI PARLA
Pedro Domigos, L'algoritmo definitivo. La macchina che impara da sola e il futuro del nostro mondo, Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 358, € 25;
Philip Lieberman, La specie imprevedibile. Che cosa rende unici gli esseri umani, Carocci editore, Roma, pagg. 286, € 26;
Henry Gee, La specie imprevista. Fraintendimenti sull'evoluzione umane, il Mulino, Bologna, pagg. 302, € 19

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