Cultura

Critico di metrica e storia

  • Abbonati
  • Accedi
franco fortini

Critico di metrica e storia

I massimi critici del Novecento appartengono di solito a due categorie ben distinte. Da una parte ci sono i geni della sintesi come Lukács, che avanzando col passo ferrato dei filosofi della storia, raccolgono lo spirito di vaste epoche intorno a un’idea dominante, e privilegiano quello specchio della società rappresentato dal genere epico o romanzesco. Dall’altra parte ci sono gli analitici come Spitzer e Contini, che intrattenendo un rapporto quasi tattile con la lingua (in particolare con la sua quintessenza monadica, la poesia) cercano nei suoi dettagli le impronte digitali dell’autore, e nel periodo storico vedono uno sfondo scenografico destinato soprattutto a far risaltare lo Stile. Rari sono invece i critici capaci di dar conto con uguale efficacia dei caratteri più platonici della letteratura e dei sintomi più legati alle trasformazioni materiali. In Italia il caso più sorprendente è quello di Franco Fortini, che con le sue vertiginose spaccate dialettiche fonde in pochi capoversi Metrica e Storia. Nulla rivela meglio questa doppia vocazione esegetica delle due conferenze del 1978 e del 1980 riproposte oggi sotto il titolo I confini della poesia in un libretto edito da Castelvecchi e curato da Luca Lenzini, che nella sua introduzione sottolinea le contraddizioni di una scrittura divisa tra sforzo didattico e coazione alla cifra aforistica o allusiva.

Una sovrabbondante trattatistica sulla teoria della ricezione ci ha abituati a dare per scontato che i mutamenti di spazio e di tempo determinano le più impensate reinterpretazioni delle opere estetiche. Nel concreto, però, le spiegazioni si fermano spesso ai più vistosi scheletri simbolici. Fortini invece, come mostra qui il formidabile commento di un testo montaliano, sa indicare con perentoria esattezza l’influsso delle tempeste socioeconomiche o geopolitiche fin sulla misura concreta di un verso, sulla punteggiatura, e sui modi più o meno diffusi e immediati con cui il pubblico coglie un’ironia o una citazione. Se ad esempio il poeta di Satura, lasciando cadere a mezza voce il termine «pietà», ne mescola il significato italiano con quello del latino pietas, il critico osserva che questo uso ambiguo sfugge ormai alla gran parte dei lettori, cresciuti a una scuola in cui lo studio della lingua di Cicerone è confinato dentro poche enclave.

Dietro la presunta autosufficienza della lirica più rarefatta, ecco apparire allora gli eserciti delle classi in lotta, i bagliori di quella feroce scena bellica che, come già vide Pasolini, Fortini si costringe a evocare anche davanti alla più elegiaca immagine della natura e dei sentimenti privati. Il conferenziere sostiene di avere sempre conosciuto la stretta parentela che corre «fra i contratti sindacali dei nostri anni e il modo di intendere una canzone del Petrarca». E se a fine anni Settanta lo ripete con più nettezza, è perché mentre tramonta il paradigma marxista che teneva insieme letteratura e politica, vede riaffermarsi le due visioni astoriche e speculari dell’arte contro cui ha sempre combattuto: il vitalismo spontaneistico e il formalismo accademico. Entrambi gli approcci, già impliciti nelle avanguardie, tendono a un estetismo estremo, che secondo Fortini è solo il rovescio della brutalità inestetica della vita del tardo Novecento, ormai priva della speranza in una palingenesi sociale.

Viceversa, per lui il posto dell’esperienza artistica è definito da tutto ciò che essa non è e non può dare. Schilleriana prefigurazione di un «uso formale della vita», la vera arte dà senso al presente mettendolo in prospettiva tra passato e futuro, ossia accennando metaforicamente a quella progettualità che ancora si nega a chi è sfruttato e costretto a vivere “alla giornata”. Ma una tale promessa di felicità è insieme l’espressione sublimata di un dominio violento: quello per cui solo alle classi egemoni è dato l’agio di gustare pienamente le sottigliezze poetiche, mentre le classi oppresse possono al massimo fruirne i contenuti grezzi, poco importa che si tratti di classici supremi o feuilleton. Di qui la doppia lotta condotta da Fortini: contro gli spiritualisti, che vorrebbero isolare la poesia in una mistica ineffabilità, come se non fosse fondata su un ben prosaico privilegio; e contro i populisti, che anziché lavorare perché ogni uomo possa innalzarsi alle gioie più alte della forma, ammanniscono ai diseredati un suo surrogato, la droga retorica dei più volgari effetti speciali.

Ma oltre a un compendio della critica fortiniana, le due conferenze ci regalano una preziosa apertura sul laboratorio poetico del loro autore. Parlando di sé, e seppure con la lucidità orgogliosa di chi non trarrà mai tutte le conseguenze dalla diagnosi, Fortini ammette di non avere offerto i dovuti sacrifici al dio della psicologia, sempre liquidata come facile tentazione sofistica; e confessa che questo rifiuto gli ha spesso impedito di valutare realisticamente gli istinti propri e altrui, ossia la credibilità di troppe parole e di troppi comportamenti, intellettuali o politici, esibiti araldicamente sui libri e nei megafoni. L’ammissione prepara un giudizio sui propri versi, che non gli sembrano davvero riconducibili all’identità del suo Io di saggista, all’adulto ostinato e ipercosciente che come disse Garboli vuole essere insieme Quintiliano e Lenin. Con un atto di commovente resa, del resto indistinguibile da un’astuta mossa narcisistica, il lirico di Paesaggio con serpente afferma qui che le sue poesie potrebbe averle scritte il padre o il figlio di quell’adulto. Un vecchio o un bambino, insomma: cioè le due metà di quell’Adamo ancora scisso che aspetta di ritrovare finalmente l’integrità originaria, di adempiersi in una società futura un po’ marxiana e un po’ paolina, a cui i versi possono alludere solo per via negativa.

Franco Fortini, I confini della poesia , a cura di Luca Lenzini, Castelvecchi, Roma, pagg. 78, € 9

© Riproduzione riservata