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Paterson, purissimo cinema

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Paterson, purissimo cinema

«Volevo creare un antidoto all’azione e all’eccitazione indiscriminate. Paterson è un film sull’osservazione delle mini variazioni della quotidianità, ma anche una storia d’amore tra persone normali, che sanno apprezzare il proprio presente». L’ha detto Jim Jarmusch a proposito del suo nuovo film, la storia di un giovane conducente di autobus che nei momenti liberi scrive poesie, che si chiama Paterson e vive a Paterson, città del New Jersey di 150mila abitanti nella quale sono nati o passati personaggi come il pugile “Hurricane”, l’attore Lou Costello, l’anarchico Gaetano Bresci, il virologo Albert Bruce Sabin, i poeti Allen Ginsberg e William Carlos Williams, che alla città dedicò un poema in cinque volumi. Con la scansione serena e meticolosa delle parole scritte dal protagonista sul suo quadernetto, Jarmusch ci racconta, dalla mattina alla sera, sette giorni dei suoi personaggi, con il loro cane, i loro incontri, e l’intrinseca bellezza e la sottile tensione di una vita “normale”, e ci dimostra l’efficacia di un cinema purissimo, laconico, coinvolgente, totalmente libero: tre anni dopo il capolavoro Solo gli amanti sopravvivono, con questo film bellissimo è il vincitore morale del 69° Festival di Cannes.

In realtà la frase di Jarmusch sintetizza anche il bipolarismo che ha contraddistinto il concorso di quest’anno: una competizione di buona qualità, nella quale si fronteggiano un minimalismo ormai classico e l’eccesso esuberante, che non necessariamente corrispondono alle vecchie categorie di “realismo” e “fantastico”, ma mescolano le loro carte in una curiosa ricomposizione immaginaria. E, anche se i proverbiali maestri europei dell’asciuttezza, i fratelli Dardenne, deludono con La fille inconnue, gelato e moralistico, è proprio il cinema più lineare a vincere la battaglia dell’affabulazione: con i due film rumeni (forti candidati alla Palma d’oro), Bacalaureat di Cristian Mungiu, analisi disturbante della corruzione che, quasi inavvertitamente, coinvolge la vita di tutti, onesti compresi, e Sieranevada di Cristi Puiu, un pranzo di famiglia che si trasforma in una claustrofobica ricognizione esistenziale; con Ma’ Rosa, dove la macchina da presa esuberante di Brillante Mendoza si appiccica con esemplare unità di tempo e di luogo a una famiglia di poveracci di Manila, incastrati dalla polizia; con la sorpresa del festival, Toni Erdmann di Maren Ade, comico, estenuante faccia a faccia tra una figlia in carriera e un padre eccentrico, che certamente vincerà uno dei premi maggiori; con Aquarius del brasiliano Kleber Mendonça Filho, costruito sulla brava Sonia Braga, e con The Salesman, scambio di suggestioni e tensioni tra vita familiare e finzione teatrale, messo in scena con rigore da Asghar Farhadi; e persino con Julieta, dove Pedro Almodovar, in una specie di “tutto su mia figlia”, abbassa i toni della sua consueta irruenza, per costruire un mélo misurato e commosso.

E poi c’è Personal Shopper di Olivier Assayas, che parla di fantasmi, di una ragazza nervosa e infelice al servizio di una diva capricciosa e quasi invisibile, di doppi, specchi, sedute spiritiche e sms, che mescola horror, Fassbinder e thriller alla De Palma, e che è stato ingiustamente fischiato: Personal Shopper è la sintesi ideale del cinema 2.0, dove tutto si confonde in un universo fluido e liquido, ma tutto viene ricomposto sul piano morale e narrativo dall’intelligenza e dallo stile dell’autore.

Purtroppo è dall’altro versante, quello del cinema più visionario e lussureggiante, che sono arrivate le delusioni. Infatti, a parte Mademoiselle, sontuosa ricostruzione a incastro di un inganno cortigiano nella Corea degli anni Trenta, dove Park Chan-wook dispiega la sua fascinosa abilità (e che potrebbe conciliare una giuria divisa), non sono stati all’altezza delle aspettative Sean Penn (The Last Face, il peggior film del concorso), Jeff Nichols (Loving, il più piatto), Bruno Dumont (Ma Loute, il più irritante). Un discorso a parte meritano The Neon Demon di Nicolas Winding Refn, American Honey di Andrea Arnold e Juste la fin du monde di Xavier Dolan: contraddistinti da uno stile visivo abbagliante e costellati di sequenze che sono veri e propri pezzi di bravura, tutti e tre s’inceppano nei meandri di sceneggiature di volta in volta troppo “concettuali” (Refn), troppo piene (la Arnold), troppo autocompiaciute (Dolan). Il contrario di quello che accade nell’ultima sorpresa del festival, l’inaspettato film perfetto: Elle di Paul Verhoeven, commedia nera e sensuale di famiglie sbrindellate, solitudini femminili, maschi confusi e donne imprevedibili, per il quale la sensazionale Isabelle Huppert si candida al premio come migliore attrice e Verhoeven alla Palma d’oro.

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