Cultura

L’amore imperfetto

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Elizabeth Strout

L’amore imperfetto

Il primo romanzo di Elizabeth Strout , Amy e Isabelle, uscito con un certo successo negli Stati Uniti nel 1998 e passato quasi inosservato da noi quando fu pubblicato da Fazi due anni dopo, era la storia di una madre e una figlia che vivono in perfetto e autosufficiente amore, in una anonima cittadina della provincia americana, fino al momento in cui la ragazza ha una relazione con un suo professore e l’incanto tra le due si spezza. Una madre e una figlia sono ora al centro del nuovo romanzo dell’autrice americana, Mi chiamo Lucy Barton, e tra le due l’incanto si è rotto da tempo. Sono anni che non si vedono, la figlia vive con la sua famiglia a New York, la madre è rimasta nel suo piccolo paese del Midwest, chiusa in un mondo che per l’altra non è solo distante molti chilometri ma rappresenta il regno dolorosamente incantato di un passato con cui non vuole avere nulla a che fare. Le due si ritrovano nell’ospedale dove la figlia è ricoverata per una infezione post-operatoria e dove l’anziana donna piomba inaspettata a vegliarla per cinque giorni. Qui i silenzi si alternano a brevi conversazioni che sono l’eco di un legame da tempo non vissuto ma mai interrotto.

Per Elizabeth Strout il rapporto madre-figlia è più di un semplice tema psicologico, più di qualcosa che ha attinenza con la storia familiare di ognuno. Quella relazione è lo spazio di un particolare discorso, quasi una lingua a sé, che sa tracciare con infrangibile precisione il legame tra ciò che appare irrilevante, i piccoli fatti e misfatti e le gioie e i drammi che si consumano nell’ombra della quotidianità, con l’essenza più profonda della vita. Nello spazio di quella relazione e di quel discorso la Storia si versa nell’esperienza di ognuno, da collettiva si fa inesorabilmente individuale. Ciò che si dicono una madre e una figlia non può esser detto altrimenti, e soprattutto il loro rapporto è essenziale. Non perché incarni l’amore perfetto, ma proprio per il contrario: in quel nodo che fonda la vita umana si rivela la drammatica imperfezione di ogni amore. È su questo motivo, afferrato e riafferrato attraverso una serie di variazioni, che Elizabeth Strout ha costruito il suo nuovo romanzo (in italiano nella traduzione, come sempre perfetta, di Susanna Basso).

Mentre la madre siede per cinque giorni accanto al letto della figlia, nella stanza dell’ospedale le infermiere vanno e vengono: a ognuna di loro le due donne attribuiscono un nomignolo scherzoso, un modo per ricostruire tra loro l’atmosfera familiare perduta. Fuori dalla finestra si erge la sagoma fallica del Chrysler Building in tutta la sua trionfante potenza, ma dentro sono piccole chiacchiere che si snodano, e come in un lavoro ai ferri la più anziana riafferra le maglie cadute di storie lontane, storie smarrite e un po’ banali di vecchie amiche perdute nel tempo. Le piccole chiacchiere veicolano per la più giovane i ricordi: l’infanzia poverissima e desolata, la durezza del padre, i castighi contraddetti da imprevisti e indimenticabili atti d’amore, l’orrore del pregiudizio e della crudeltà nella scena primaria di un fratello pubblicamente umiliato perché scoperto in abiti femminili. Poi gli amori, il matrimonio della ragazza che si è salvata dalla miseria perché amava la scuola dove, a differenza che a casa sua, d’inverno faceva un bel caldo, la maternità, ciò che spesso si perde, ciò che talvolta si trova. Ogni tanto in questo tornare e ritornare sul suo tema - l’amore materno come paradigma dell’amore imperfetto - qualcosa stride e infastidisce. I personaggi sono troppo uguali a se stessi, troppo caratterizzati e programmati: la madre che passa i cinque giorni incollata sulla sedia rifiutando una branda o una poltrona è troppo rigida, c’è troppa tristezza e anche troppe lacrime versate o trattenute, un po’ di petulanza affiora quando vengono riesumate le storie di qualche Kathie o Marylin o Harriet, e si affaccia insistentemente la retorica molto americana del conflitto tra la commozione e il ritegno.

Quello che veramente funziona e conquista è invece il modo rapsodico in cui Elizabeth Strout compone gli elementi della sua storia, la naturalezza con cui si avvicendano il passato e il presente, l’imprevedibilità con cui si incastrano i ricordi a costruire la storia di una vita. La sapienza, in altri termini, con cui questa autrice cha ha passato buona parte dei suoi sessant’anni a insegnare letteratura, smonta e rimonta, come in Olive Kitteridge, il meccanismo del romanzo. Mi chiamo Lucy Barton, se parla dell’amore per la madre, parla anche dell’amore per la scrittura, come se ci fosse un sotterraneo nesso fra i due. Oltre alla madre carnale compare infatti nel libro un’altra madre, non meno importante, una scrittrice che la voce narrante, Lucy stessa, incontra prima per caso e poi segue a un corso di scrittura. La donna le insegna qualcosa di essenziale che le apre la strada di ciò che vuol fare davvero, cioè diventare scrittrice: «Ciascuno di voi ha soltanto una storia», aveva detto quella speciale insegnante a un certo punto del corso: «Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola».

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