
L’intera opera di Teju Cole, nato in Nigeria e vissuto prevalentemente negli Stati Uniti, è una educazione allo sguardo. Prendiamo quest’ultimo volume, Punto d’ombra(titoli italiani precedenti, Einaudi: Città aperta e Ogni giorno è per il ladro), un quaderno di appunti in giro per il mondo, un singolare diario lirico-descrittivo che amalgama testi e immagini. «Guardavo, ma non vedevo nulla…». Così scrive a proposito di un inverno in cui insegnava all’univesità, “esiliato” dalla sua macchina fotografica. Vedere significa far diventare un “oggetto” (prodotto per certi fini) una “cosa”, che ha senso per me e che svela il suo raccordo con l’insieme. La realtà è relazione, tra luoghi, linee, frammenti, anelli. E soprattutto vedere è sviluppare una attenzione ai margini (dove solo è visibile la «teatralità della vita urbana») e al dettaglio, è disinteressarsi delle essenze e concentrarsi sullo specifico; dalla «epoca dell’essenzialismo» all’«epoca della specificità». Potremmo aggiungere: dalla filosofia alla poesia.
Cole è un temperamento anti-metafisico: non c’è un al di là dell’apparenza, e la verità è sempre nascosta in piena luce. Impressionante la sintonia di queste foto a colori, familiari ed enigmatiche, con la ricerca di Luigi Ghirri (uno dei maestri riconosciuti): persone e luoghi sono ritratti in una loro ovvietà perturbante, in una “banalità” che contiene la possibilità di una epifania. Lo sguardo marginale, o perfino deprivato (in seguito a una malattia l’autore aveva perso per un periodo la vista a un occhio), vede le cose nella loro essenzialità, spogliata di tutto il superfluo («come in un’opera di Beckett»), le cose «libere dall’utilizzo» e dunque quasi «sul punto di parlare». E in tutti i libri di Cole i “margini” sono sempre anche quelli della società, degli umiliati e offesi, delle vittime delle lotte per i diritti civili, dei bambini poverissimi reclutati in Svizzera per lavorare come schiavi, della musica dolorosa di Coltrane…. La realtà sembra sollecitare da noi un compito morale, invoca una memoria e una redenzione. In questo senso il suo sguardo, pure a tratti impersonale, attratto dalle geometrie come quello di Calvino, è come responsabilizzato da ciò che osserva (distante dall’esercizio del signor Palomar, l’imparare ad essere morti - dunque ingiudicabili - già dentro l’esistenza). Inoltre: per vedere le cose ha bisogno degli altri, dello sguardo degli altri. Da solo non ce la fa.
Non gli interessa il turismo o il pittoresco, ma, precisamente, vedere le cose come le vedono gli abitanti di quel certo luogo: afferrare il “comune”, oltre il “tipico” (una «semantica comune dello spazio usato»). D’altra parte in ogni pagina si rivolge al lettore comune, alla immediatezza preculturale della sua esperienza quotidiana, come quando ci ricorda i sogni comuni in cui voliamo o cadiamo. In Punto d’ombra un’immagine ricorrente è quella di oggetti coperti, rivestiti, velati, solo parzialmente nascosti con drappeggi, teloni e sudari: ed è paradossalmente il rivestimento a dirci la verità sempre sfuggente, è il velo a funzionare quasi da “mediazione” tangibile (angelica, mercuriale) tra il divino e l’umano (nei rigonfiamenti di una tenda c’è una irregolarità regolare che ricorda la superficie dell’acqua: «Dio reso visibile»). Ed è richiamato, nel commento alla foto di uno che sta telefonando in una cabina con il cappuccio in testa, il dipinto di Timante, con Agamennone che ha una mano davanti al viso e il capo coperto dal mantello: la sua sofferenza di padre può essere immaginata, non rappresentata per intero. In queste pagine si delinea anche un metodo del vedere, che è al tempo stesso “trafiggere”(con la cornea) e “raccogliere”(con la retina), dove però viene privilegiato il momento “passivo”, di ricettività creativa, quando un oggetto arriva a noi e gli permettiamo di manifestarsi.
Ed è fondamentale cogliere il punto in cui, nel mondo circostante, qualcosa si volta verso lo spettatore, all’improvviso (secondo la lezione di Richter): «ciò che è voltato contiene se stesso».
Nella percezione della realtà sono attivati sempre i cinque sensi, di qui la centralità della sinestesia: capita infatti di “vedere” un suono, di “sentire” ciò che si vede, e una neve sporca ci appare come «un brusio di pallini giallo pallido». Punto d’ombra, semiologia poetica in forma di racconto - capace di riannodare il mito antico alla cronaca - è anche una risposta alla questione della narrazione oggi, di come rappresentare un mondo che sembra dissolversi nelle sue simulazioni e riproduzioni, entro un inquinamento visivo quasi irreparabile. Attraverso immagini e testi (che non sono mai solo una parafrasi) sviluppa una epistemologia (e poetica) dell’attenzione, secondo la lezione di maestri come Sebald e John Berger: la fotografia e la parola fermano il tempo, isolano alcuni istanti, congelano l’apparenza - effimera - e così ci permettono di leggerla: perfino l’oscurità è «informazione latente» (a Cole accade di percepire la natura di chimera delle giraffe allo zoo non nelle giraffe reali del recinto ma in quelle fotografate nel poster del bar!). La verità non è qualcosa di esoterico ma, appunto, visibile a occhio nudo. Basta saperla vedere.
Per certi aspetti Cole potrebbe ricordare un altro grande artista contemporaneo, Anish Kapoor. In entrambi la consapevolezza tragica degli orrori della Storia, del suo perenne “scandalo”, non impedisce un amore stillante per la vita. Quello che Cole ama di tutte le città e i luoghi che visita è «la prova materiale che la vita umana prosegue nonostante l’ostilità del mondo», e in ciò «rimane un intenso attaccamento al bello» mentre «il sole si riversa sul mondo e sulle cose del mondo». In un’altra pagina nota, semplicemente, che «in primavera c’è molto di più nel mondo», e anche se ogni primavera è incisa dalle vallate profonde dei ghiacciai invernali, che si sono ritirati. Forse soltanto un artista che non appartiene del tutto all’Occidente, o almeno alla retorica nichilista e autodistruttiva dell’Occidente, può oggi citare e capire Dante (qui presente in due abbaglianti citazioni) e mostrarci la compresenza dei vivi e dei morti («non siamo più soli: sono con noi, ora, sono sempre stati con noi, tutti i nostri vivi e tutti i nostri morti»), la continuità misteriosa del cosmo - «ci sono migliaia di echi e accordi, a ogni istante”»- , la sua segreta ostilità e la sua accogliente bellezza nascosta in superficie.
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