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Emancipate dalla tragedia

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Emancipate dalla tragedia

Protagonisti. Il Teatro greco di Siracusa
Protagonisti. Il Teatro greco di Siracusa

Delle eroine di tutte le letterature solo Didone creata da Virgilio nel I e nel IV libro dell’Eneide è degna di stare accanto alle eroine che crearono i Greci ed esibirono sulle scene dei teatri di Atene, di Epidauro, di Siracusa. Solo lei assieme ad Elettra, a Ifigenia, ad Antigone, ad Alcesti, a Fedra, a Medea, a Ecuba, ad Andromaca ha posseduto ed espresso le passioni dell’animo femminile in tutta la loro ebbrezza e sofferenza, nella loro sublimità e nel loro abisso: l’amore prima di tutto, certamente, ma anche l’abnegazione, l’abbandono, la pietà. Ad una ad una, fra le mani di Sofocle o di Euripide esse le rappresentano nel loro stadio più sublime o più misero, devote fino al sacrificio di sé o perverse fino alla rovina di un altro; indifferenti ai pensieri e a quelle altre passioni che muovono i maschi, la gloria, la guerra, il potere, il denaro, una gara, una partita di caccia, una cena.

Elettra: quando suo padre Agamennone torna da Troia, la moglie Clitennestra assieme al suo amante lo uccide per gelosia della prigioniera Cassandra. Elettra rimane lì, abbandonata, inerme, spoglia, senza darsi pace, attendendo il ritorno del fratello Oreste per poter fare giustizia e vendicare il padre con la morte della madre. Ancora più forte e decisa di lui, anima e affianca Oreste nel matricidio, impavida, sicura. Sofocle ne ha tratto quello che Simone Weil definisce il suo dramma più cupo e più luminoso, dove si vede la miseria e l’umiliazione far piegare sotto il loro peso un essere solo e indifeso, e la sua storia «è ben fatta per toccare tutti coloro che nel corso della loro vita hanno avuto occasione di conoscere cosa sia l’infelicità». Una storia antica, certamente, ma «la miseria, l’umiliazione e l’ingiustizia e il senso della solitudine e di essere in balìa della mala sorte, abbandonati da Dio e dagli uomini, queste non sono storie antiche, sono di ogni tempo, cose che la vita infligge quotidianamente agli sventurati».

Di razza non diversa Antigone nell’altra tragedia sofoclea a lei intitolata, e nell’altra reggia, di Tebe, dove si sono consumati gli orrori di Edipo, inconsapevole assassino del padre e sposo della madre. Questa loro figlia, contro le leggi dello Stato e obbediente a quelle del cuore e di una giustizia superiore, a costo della propria stessa vita dà sepoltura a suo fratello Polinice, lasciato in pasto agli uccelli per ordine del tiranno Creonte dopo che era morto assalendo la sua patria.

E ancora prima di questa catastrofe la dolce giovane e mirabile figlia nell’Edipo a Colono accompagna essa sola «passo per passo, uniti, lentamente» il padre cieco ed esule dopo la rivelazione degli orrori del suo parricidio e dell’incesto, nell’ultimo suo cammino finalmente verso la pace della morte dentro al bosco sacro di Colono coperto di rugiada e risonante del lamento dell’usignolo. Un’altra misura femminile, fra quelle che abbiamo accennato, totalmente diversa investe e appare in due principesse del mito e del teatro tragico, antico e anche moderno: Medea e Fedra. La prima, principessa barbarica figlia del re dei Colchi, aiuta con le sue arti magiche Giasone, scialba figura di condottiero di cui si è innamorata, durante la sua spedizione alla conquista del vello dell’ariete volante che aveva portato laggiù i due piccoli Frisso ed Elle in fuga da Tebe. Al ritorno in patria dalla spedizione, Giasone s’innamora a sua volta di Glauce, e Medea fa morire la rivale, uccide i figli avuti da Giasone e fugge. Così in Euripide, in Apollonio Rodio, in Ovidio, in Valerio Flacco, e ancora sulle scene di Seneca. Il quale contro le leggi pudiche e nobili del teatro antico fa compiere alla protagonista il massacro in aperto palcoscenico sotto gli occhi degli spettatori e tra le fiamme della reggia incendiata, «correndo qua e là in preda all’ira e all’orrore, come una tigre orba dei figli nelle foreste del Gange».

Più grande, dell’assoluta grandezza dell’animo femminile negli impulsi più segreti e nei più manifesti orrori, l’altra mirabile regina, vittima sventurata di Afrodite come Didone, e ancora in Euripide così come in Seneca. Fedra, innamorata del figliastro Ippolito tutto dedito agli sport, si strugge per lui negli spasimi più atroci. Le «si scioglie il nodo delle sue povere membra: prendetemi le mani – invoca le ancelle nell’Ippolito euripideo, – le mie belle mani , le mie belle braccia, o fanciulle, toglietemi la benda e scioglietemi sulle spalle i capelli». Disperata, si uccide accusando Ippolito di aver tentato di violentarla. La rivelazione del suo amore a Ippolito è il culmine della Fedra senecana come dell’introspezione psicologica. Prima esitante, poi forte e decisa, la donna si anima e procederà imperterrita sino alla fine: «Osa, animo mio, cerca, porta a termine il tuo incarico, fermo, intrepido nel parlare, poiché gran parte del mio delitto è ormai da tempo consumata, e tardivo sarebbe per me il pudore». E dopo il lungo colloquio, tra l’orrore e la ripulsa di lui e le contorsioni e poi la follia irrefrenabile di lei: «Ti inseguirò attraverso il fuoco e attraverso il mare furioso e rupi e fiumi travolti dalle loro onde impetuose senza darti pace…». E il Coro: «Cosa lascerà mai di inosato l’impeto furente di una donna?».

Ma la condanna pronunciata dal Coro – e dal tragediografo-filosofo – sulla perversità e sulle follie della donna impersonata da Fedra, non la scalfisce nell’animo dello spettatore, come non la scalfirà nella tragedia del suo più grande interprete: Racine.

Lo stesso Racine ci indirizza con le più dolci parole anche alla più dolce delle protagoniste del teatro greco, Alcesti, raffigurata da Euripide in una delle sue prime opere senza riuscire a farne nemmeno una tragedia in grande stile ma un soave dramma a lieto fine. Dario del Corno paragonò l’Alcesti euripidea a una fiaba popolare, dove la sposa si sacrifica per il marito, con gesti, dice dunque Racine nella Prefazione alla sua Ifigenia in Aulide, di tale dolcezza e parole di tale grazia da essere inesprimibili altrimenti.

Admeto, lo sposo, è prossimo alla morte, ma per intercessione di Apollo potrebbe sfuggirle se qualcuno volesse sostituirlo. Si rifiutano gli amici, si rifiutano anche il vecchio padre e la vecchia madre, ma non lei. La sua decisione è sopraffatta solo per un istante, alla vista dei figlioletti che dovrà lasciare; poi comincia a immaginare ormai oltre la vita «il remo e la barca fatale – ecco le parole a cui alludeva Racine; – odo il vecchio nocchiero sulla riva infernale che grida impaziente: Sei attesa quaggiù, tutto è pronto, scendi, vieni, non farmi aspettare». E invece aspetterà, perché tutto si sistema. Arriva Eracle di passaggio alla volta della Tracia per una delle sue fatiche; Admeto lo ospita signorilmente senza dirgli del lutto che affligge la sua casa, e quando l’eroe lo saprà da un’ancella, affronterà la Morte, le strapperà Alcesti e la riporterà quassù, col volto velato come una dama di van Eyck, silenziosa come ancora nelle tenebre dell’Ade, a ridare gioia allo sposo e alla sua casa.

Quando si vede o s’immagina Alcesti, la madre e persino la sposa che essa è scompaiono. Si pensa a Ifigenia. La si vede venire come la raffigura Rilke nella lirica a lei dedicata mentre si avvia e passa davanti ad Admeto: «Ed ecco venne lei, un po’ più piccola / quasi di come lui la conosceva, / triste e leggera nella veste pallida da sposa» mentre dice fra sé, alla morte, e a lui: «Che cosa più mi resta | di quello che ero qui? Solo il morire…» (trad. di G. Baioni).

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