Cultura

La resistibile invadenza dell’io

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Elzeviro

La resistibile invadenza dell’io

  • –di Goffredo Fofi

Due piccoli romanzi venuti, diciamo così, dalle due sponde dell’Oceano Pacifico, indicano un cambiamento di prospettiva nella letteratura contemporanea che ci sembra benvenuto. Si tratta di Il proiezionista del giapponese Abe Kazushige (Jaca Book/Calabuig, Milano, pagg. 220, € 14) e di Andarsene (titolo originale Los afectos) di Rodrigo Hasbun (Sur, Roma, pagg. 120, € 15).

Gli autori sono entrambi nei trent’anni, e tentano strade importanti, un ritorno a romanzi di fatti e personaggi radicati nella storia e cultura dei loro Paesi, nei dilemmi della loro storia e del nostro tempo. I due scrittori sono passati dall’Italia in queste settimane e hanno incontrato qualche lettore e qualche critico più curioso di altri, sostenendo qualcosa che, anche se genericamente, li accomuna. Il primo ha rivendicato l’appartenenza a una generazione “post-Murakami”, che intende scavare nuovamente nella storia del suo Paese, della cui letteratura considera con molta attenzione quanto oggi non è molto di moda, le saghe familiari, le letteratura di genere, la tradizione diaristica, quella giornalistica. La prima persona, lo scavo nel sé, sono molto importanti in quella tradizione, ma se ne è fatto un abuso che ha allontanato gli scrittori della “generazione Murakami” da problemi più vasti, conoscenze più necessarie, responsabilità più impellenti.

Il boliviano Rodrigo Hasbun dal canto suo ha detto chiaro e tondo che ciò che gli interessa è «mettersi nei panni di qualcun altro», tornare alla Storia recente – nel caso di Andarsene l’immigrazione dall’Europa conseguente alla seconda guerra mondiale, sia di ebrei che, alla fine del conflitto, di persone compromesse col regime nazista e comunque tedeschi che il nazismo hanno accettato, e più di recente la storia delle guerriglie, la storia stessa del Che e della sua morte. Temi vasti affrontati in modo sintetico, senza sbrodolate sentimentali o politiche, e dall’esterno, benché senza freddezza, con contenuta partecipazione.

Si respira, leggendo questi romanzi e pensando alla pletora della letteratura italiana contemporanea e ai suoi nuovi generi – e tra questi la storia famigliare e la storia personale sono dominanti, l’io è invadente sino alla nausea e si esprime per considerazioni e ghirigori psicologici che rivendicano partecipazioni emotive prima che morali e attraversano persino il libro di denuncia, l’inchiesta giornalistica, l’indagine storica. Io io io, ioc’ero, ioho sofferto, ioho capito, iogiudico, iosto al centro. Io mi piaccio, e voglio piacere, in anni in cui sarebbe opportuno piuttosto dispiacere che piacere, rispetto all’andamento della società e della cultura. Lungo romanzi che superano facilmente le cinquecento pagine, l’io dell’autore sovrasta i personaggi e le storie, pervade ogni considerazione, anche quelle più politiche, infiacchisce ogni distanza in quella che Italo Calvino chiamava, sanamente detestandola, la “melassa psichica”. Nessun equilibrio, infine, tra io e gli altri, io e la Storia, io e il contesto, tutto si risolve in un io che mina ogni oggettività, che impasta e colora ogni considerazione e ogni costruzione.

Questa voga è partita, mi pare, dal culto coloniale dei giovani scrittori nostrani per la cultura americana metropolitana anzi newyorkese, da Paul Auster a David Foster Wallace, e nei più esigenti per uno scrittore invero più grande, il cui io confligge continuamente con la Storia, la cui biografia si confronta ossessivamente con le tragedie del suo tempo, Roberto Bolano. Ma evidentemente è più facile “fare l’americano” che non il latino-americano, per affinità sociali e culturali che risalgono di fatto a quella «cultura del narcisismo» denunciata in un grande libro da Christopher Lasch, una cultura che ha impregnato la generazione del dopo-le-rivolte, del fallimento delle rivolte, del dopo-68, del dopo-Vietnam... Che abbandonava il confronto con la Storia adagiandosi nel flusso pacificante e consolante prima del new age e poi della nuova economia.

Sia chiaro, l’io è importante, è l’obbligato punto di partenza di tutta la nostra esperienza, ma o si apre o langue e finisce per puzzare. La traduzione recente di un vecchio libro dell’avanguardia surrealista, Il mio corpo ed io di René Crevel (a cura di Paola Dècina Lombardi, elliot, Roma, pagg.118, € 13,50) ci ricorda la fatica della riconciliazione tra l’io e il corpo prima ancora che quella tra l’io e gli altri e l’io e la Storia – e di questo tentativo Crevel è morto, suicida. Il confronto con la Storia finisce sempre per ripresentarsi, che lo si voglia o no, anche in chi al ricatto della Storia tenta di sfuggire. Ma anche questo può diventare, e diventa in molti scrittori di oggi, un alibi per mostrarsi ed esibirsi, per amarsi e leccarsi; diventa un genere, «io e la Storia», in cui la Storia è un altro pretesto per narciseggiare, per chiudersi e non per aprirsi. Un giovane poeta d’altri tempi, Rocco Scotellaro, diceva che «io sono gli altri». Non si chiede tanto, non tutti sono in grado di reggere a questa constatazione e a questo progetto, ma è con questo che bisogna pur confrontarsi, scontrarsi, con la Storia, con il Presente, scavando e vivendo contraddizioni non solo nostre.

In ogni caso, della prepotenza bavosa del vostro io, scrittori italiani, giornalisti italiani, saggisti italiani, c’è anche chi è stufo e, non di rado, nauseato.

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