Cultura

Mattatore anarchico

  • Abbonati
  • Accedi
Teatro

Mattatore anarchico

Quando viene a mancare un artista importante e noto sono molte le immagini che si affollano nella mente di chi ha seguito la sua carriera da vicino o soltanto per frammenti. E nel caso di Giorgio Albertazzi, scomparso ieri all’età di novantadue anni, sembrano riemergere dalla memoria tanti profili apparentemente contrastanti: il grande attore di tradizione accanto all’ardito sperimentatore, il divo orgogliosamente isolato e il maestro di tanti giovani, l’istrione capace di ballare in tv “sotto le stelle” e l’individuo dalle tante vite sentimentali, nonché l’uomo dai discussi trascorsi politici. Il tutto forse, oscurato dagli ultimi anni di attività dell’attore, nei quali Albertazzi è tornato in scena affrontando cospicue parti shakespeariane, ma in allestimenti sommari e replicando stancamente l’idea del grande mattatore.

Ma per ricostruire la sua figura bisogna certamente tornare alla sua gioventù e ai suoi esordi. Certo si lasciava alle spalle l’adesione alla Repubblica di Salò col grado di tenente e un processo nell’Italia liberata, durante il quale lo si riteneva responsabile di aver guidato un plotone di esecuzione, cosa che gli costò la condanna a due anni di carcere. Una linea politica che riaffiorerà nel 1996 quando col centrodestra si presenterà alla elezioni per il Parlamento nel collegio di Tradate. Ma è vero anche che quando inizierà la sua carriera tutto sembrerà volgere verso il nuovo e l’inesplorato, così Alain Resnais lo vorrà nella raffinatissima trama di silenzi e sguardi de L’anno scorso a Marienbad, mentre qualche anno dopo darà vita in tv a un inquietante Dottor Jeckyl e Mister Hyde di cui sarà anche regista, alla ricerca di formule visive più ardite, misurandosi poi con minor successo nel suo unico tentativo dietro la macchina da presa per il grande schermo con una Gradiva nel 1970. Non c’è dubbio però che la maggior parte della vita artistica di Albertazzi e della sua identità di interprete si definisca sulle tavole del palcoscenico, con un clamoroso esordio nel 1949 diretto da Visconti per il monumentale allestimento nel Giardino di Boboli a Firenze del Troilo e Cressida shakespeariano, insieme a quella prestigiosissima formazione che fu definita la nazionale di calcio del teatro italiano. Da allora in poi Albertazzi accetta sfide coraggiose e raggiunge risultati di popolarità e di successo straordinari, non solo in Italia, basti pensare a quell’Amleto diretto da Zeffirelli nel ’64 all’Old Vic di Londra che resta per due mesi in cartellone col tutto esaurito. E certamente il suo profilo attoriale si definisce con maggior precisione nel lungo periodo trascorso, nella vita e nell’arte, insieme ad Anna Proclemer, anche in questo caso lanciando sfide come nel caso de La governante, scritto proprio per l’attrice dall’uomo a cui era stata precedentemente legata, Vitaliano Brancati, portato in scena sotto la guida di Patroni Griffi e ostacolato dalla censura per le allusioni a una relazione lesbica.
I due attori rischiano soprattutto sul fronte della nuova drammaturgia, in un Paese che ha bisogno di parole nuove, di riflessioni più adatte ai tempi, in una nazione che si va evolvendo socialmente e moralmente, e queste parole vengono dette in scena attraverso i copioni di Moravia e di Sartre, di Camus e di Brusati. Poi, negli anni Ottanta quando il teatro italiano cerca di assestarsi dopo gli scossoni dell’avanguardia che ne hanno minato le fondamenta, ideali e formali, rompendone le fruste abitudini, Albertazzi sente di doversi misurare con qualche nuova linea interpretativa (come ricorda Renato Palazzi nel pezzo on line) lavorando ad un Enrico IV pirandelliano con Calenda e a Re Nicolò di Wedekind con Marcucci, allontanandosi dal prototipo, per lui sempre presente, del grande attore di stampo ottocentesco, che accentra su di sé tutti i valori dello spettacolo. E poi, dopo il bel colpo dell’89 con Le memorie di Adriano della Yourcenar che Maurizio Scaparro gli cuce addosso alla perfezione, con debutto nella villa dell’imperatore alle porte di Roma e un numero infinito di riedizioni negli anni successivi, lo si ritrova ancora alla ricerca di nuove suggestioni in tempi più recenti, nel 2010,in un Lear insieme a uno dei giovani registi più originali della nuova scena italiana, Antonio Latella, ovvero quanto di apparentemente più distante da lui.
Ma l’interprete navigato accetta di ridefinirsi in quella sorprendente calligrafia scenica, facendo contemporaneamente di quel monarca abbandonato dai suoi eredi e dai suoi affetti una sorta di autoritratto. Così come in tv nel 2004 aveva deciso di partecipare a una trasmissione insieme a un’altra personalità della cultura italiana davvero opposta a lui, Dario Fo, lavorando con grande passione, tanto che il premio Nobel gli rende omaggio in queste ore con commozione ricordando le prime battute che si scambiarono conoscendosi per questo progetto «Fondamentalmente anarchico ha detto Giorgio, e io “tutto anarchico” gli ho risposto».

© Riproduzione riservata