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Sul corpo dei neri il sogno americano

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Ta-Nehisi coates

Sul corpo dei neri il sogno americano

«Durante gli anni della mia giovinezza essere neri a Baltimora significava essere nudi di fronte agli elementi del mondo (...). La legge non ci proteggeva. E adesso la legge è diventata una scusa per fermarci e perquisirci, per portare a un livello superiore l'assalto al nostro corpo» afferma il giornalista Ta-Nehisi Coates in Tra me e il mondo, una lettera di 200 pagine al figlio quindicenne che lo scorso anno ha avuto grandissima risonanza negli Stati Uniti.

Scritta di getto quando si seppe che sarebbero rimasti liberi gli assassini di Michael Brown, 18 anni, afroamericano di Ferguson crivellato da 12 proiettili mentre era inerme, a braccia alzate, colpevole di aver rubato un pacchetto di sigarette - neppure il caso più grave di un'impressionante serie di omicidi commessi dalla polizia contro neri innocenti - è un potente atto d'accusa. Non verso gli agenti - cui sono riconosciuti il massimo potere e la minima responsabilità, e il cui pregiudizio razzista fa degli afroamericani il più frequente bersaglio - ma alla società americana fin nelle sue fondamenta. Nelle prime pagine Coates dichiara di ritenere il progresso dell'America bianca basato sul saccheggio e sulla violenza.

«Non c'è niente di radicale in questa affermazione», scrive il quarantenne Coates, il cui obiettivo principale non è rivendicare i danni della schiavitù e della segregazione razziale, ma dimostrare come le idee che le hanno generate siano ancora vitali tra i suoi concittadini e ancora costringano gli afroamericani in una condizione di paura perenne, di spossessamento dei propri corpi. Dunque ancora di schiavitù.Pare un'iperbole ma la cosa più sorprendente di questo libro scritto con chiarezza e semplicità è la sua capacità di far capire come un timore antico, sostenuto da una violenza mai sopita, permei la popolazione nera statunitense e ne condizioni la vita fin dall'infanzia. Già da ragazzini gli afroamericani sanno che anche il più piccolo errore può essere fatale. Possono essere uccisi a 17 anni per aver discusso con le ronde del quartiere, per avere bussato a una porta cercando soccorso dopo un incidente, per aver tenuto in mano - a 12 anni - una pistola giocattolo.

E questo nell'America del 2014. «Era sempre davanti a me. La paura era nei ragazzi più appariscenti del mio quartiere, nei loro grandi anelli e medaglioni, nei loro cappotti imbottiti e nei colli di pelliccia, la loro armatura per affrontare il mondo». Era nei giochi di dominanza, in cui il puntare la pistola contro un rivale poteva illudere un bambino di impadronirsi della morte, o almeno della vita.«Sapevo che il padre di mio padre era morto, e che mio zio Oscar era morto, e che mio zio David era morto, e nessuna di queste scomparse era stata naturale. E questa paura la vedevo in mio padre (...). Anche lui ha sempre avuto paura. La sentivo nei colpi della cintura di cuoio nero, che calava su di me con più ansia che rabbia, perché “o lo picchio io o ci penserà la polizia”». Allora come oggi «la violenza scaturiva dalla paura come il fumo dal fuoco». Tuttora Coates si chiede se questa violenza l'abbia salvato o gli abbia sbarrato la via di uscita. «Noi infondiamo nei nostri bambini il terrore, i bianchi il senso di supremazia».«Tu ancora credi che l'ingiustizia sia Michael Brown.

Non hai ancora dovuto fare i conti con i miti e le storie in cui credi, devi ancora scoprire l'imbroglio che ci circonda» scrive al figlio il padre, che a Ground zero non pensa all'11/9 ma al mercato di schiavi che lì aveva luogo. L'imbroglio «è una casa perfetta con un prato ben tagliato. È il barbecue del Memorial day, le associazioni di quartiere», dispacci da un altro mondo per Ta-Nehisi che a un certo punto si rende conto che era proprio quel sogno di esistenze ricche e spensierate ad alimentarsi dei loro corpi. «Una società che protegge alcuni con scuole, mutui, ricchezze ataviche e che pensa di proteggere te solo con il bastone della giustizia criminale ha fallito nel realizzare le sue buone intenzioni, oppure è riuscita in qualcosa di ben più oscuro (...) Il risultato è stato di renderci deboli di fronte alle forze criminali del mondo».«Ben pochi tra gli americani direbbero ad alta voce che sono a favore dei neri lasciati per strada.

Ma una vasta parte del popolo americano farebbe qualsiasi cosa in suo potere per preservare il suo sogno». Sogno che prospera nell'oblio, «perché ricordare li risveglierebbe bruscamente dal sogno e dovrebbero vivere qui con noi, qui sotto nel mondo». Scoprire «come fondare una democrazia che non preveda il cannibalismo». Scrive Solženicyn: «Per fare del male l'uomo deve prima sentirlo come bene o come una legittima, assennata azione». «Ecco su cosa si fonda il sogno - aggiunge Coates - i suoi sostenitori devono (...) credere che sia giusto». Ateo e preoccupato dal potere distorsivo della speranza Coates incoraggia il figlio a «resistere alla tentazione di accettare una storia di comodo fatta di legge divina, la favola che presume l'esistenza di una giustizia implacabile. Gli schiavi non sono pietre sul tuo cammino e le loro vite non sono capitoli di una storia di redenzione.

Erano persone trasformate in carburante per la macchina americana». Fiero del suo disagio permanente, della vertigine intellettuale, di aver fatto a pezzi i sogni, lo esorta: «Devi fare pace con il caos ma non puoi mentire. Non dimenticare quello che ci hanno tolto e come hanno trasfigurato i nostri corpi in zucchero, tabacco, cotone e oro».Coates ammette di essere un uomo ferito, ma non sconfitto. «Loro hanno fatto di noi una razza. Noi abbiamo fatto di noi stessi un popolo». E la sua lettera, talvolta ingenua, semplicistica, imprecisa in alcuni momenti, esagerata in altri - pochi, nonostante tutto - ha una grande forza. Sicuramente per gli americani, ma anche per gli europei che pure hanno vissuto e vivono sulle spalle di altri uomini, non necessariamente loro compatrioti.

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