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La cattiveria di Leo è uguale per tutti

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La cattiveria di Leo è uguale per tutti

Il ritratto di Leo Longanesi (1905-1957), giornalista, scrittore, artista, editore, moralista, è un piccolo e consolidato genere letterario. L’inizio era stato suo, fulminante, memorabile: «Sono un carciofino sott’odio» (Parliamo dell’elefante, 1947), in cui egli riusava la definizione coniata da Ugo Ojetti per Arrigo Cajumi («Un limone sott’aceto»). Poi sono venuti in molti ad accreditargli qualità, genio, contraddizioni. Il predetto Cajumi, di cui Longanesi aveva stampato nel 1947 i Pensieri di un libertino, scriveva che «Longanesi, anche quando ciò gli poteva costar caro, ha visto gl’italiani come sono; e non come fingono, o vorrebbero essere». In Diario romano Vitaliano Brancati affermava che Longanesi aveva «una cattiveria uguale per tutti e uguale come la giustizia». L’indomani della morte Giuseppe Prezzolini sul «Borghese» parlava di una «perdita irreparabile», di uno «scrittore parco, lindo, esatto, ardito, nuovo ed antico»; Ennio Flaiano sul «Mondo» ricordava che «Longanesi morto è più di un amico perduto, è la fine di un incontro e di uno spettacolo». Indro Montanelli gli assegnava «un intuito infallibile» e con Marcello Staglieno gli ha dedicato la biografia tuttora canonica. Gianfranco Contini gli ha riconosciuto come editore dell’«Italiano» la pubblicazione dei «più bei libri del mio tempo».

Per i settant’anni della casa editrice Longanesi ora giunge in libreria Il mio Leo Longanesi di Pietrangelo Buttafuoco, che entra nella nutrita cerchia degli estimatori siciliani, primo fra tutti Leonardo Sciascia. Il volume è composto di una partecipe introduzione («Il Longanesi animato») e di un’ampia antologia di testi ordinati per temi («Cultura e libri», «Mussolini e la guerra», «Italietta», «Cialtronismo», «De Gasperi», «Democrazia», «Destra/sinistra»).

Buttafuoco offre una lettura di Longanesi che affonda le radici nell’assidua frequentazione famigliare del «Borghese» e del catalogo Longanesi, disegnandone la figura soprattutto dai testi e dalla prospettiva del secondo dopoguerra. Per Buttafuoco Longanesi è l’«apice della commedia» italiana, «nel solco di Carlo Goldoni e di Gioacchino Rossini». Una commedia sociale, come scriveva Sciascia, «assurda» e «ridicola», fulcro dell’annoso dibattito sulla natura degli italiani, che in Codice della vita italiana Prezzolini stigmatizzava in «furbi» e «fessi» e Longanesi variava in «cessi» e «paraculi».

Longanesi è tra i migliori scrittori di aforismi del Novecento, in Italia e in Europa. Per la massima di una o due righe egli ha un’inclinazione formidabile, divertente e drammatica. Rileggo gli aforismi di Longanesi da anni e non smettono di sorprendermi. C’è una lama affilata nel suo dire breve che penetra e illumina. Buttafuoco dice una cosa convincente: «Ogni suo aforisma è un intreccio di fabula». È vero: in ogni aforisma di Longanesi c’è un pezzo di vita e di storia. Brancati lo aveva spiegato così: «a Longanesi non interessano i princìpi ma le persone». Nella scelta di Buttafuoco figurano alcuni tra gli aforismi più celebri: «Vissero infelici perché costava meno», «Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola», «Veterani si nasce» (Mino Maccari qualche anno prima aveva detto «Giovani non si nasce, si diventa»). Buttafuoco sottolinea il culto dell’esattezza, la «religione del dettaglio» che accomuna e contraddistingue lo scrittore e l’editore.

Il libro dedica largo spazio a Mussolini. Buttafuoco lo motiva nell’introduzione: «L’esistenza, per Longanesi, è stata un indirizzo preciso, un campanello e un nome: Mussolini». Sul rapporto con Mussolini si sono interrogati e pronunciati in tanti, asserendo una sorta di predilezione del Duce per il giovane conterraneo di Bagnacavallo, che già a vent’anni, nel 1926, aveva fondato a Bologna «L’Italiano» (battagliera «rivista settimanale della gente fascista») e pubblicato il Vade-mecum del perfetto fascista (con il famoso “assioma per il milite” «Benito Mussolini ha sempre ragione»). Questa sintonia avrebbe protetto il “frondista” Longanesi in momenti difficili (ma non evitato la chiusura del rotocalco «Omnibus»).

Del Duce Longanesi dà numerose descrizioni. Una delle più riuscite illustra il fascismo e il suo artefice: «Mussolini ha un carattere notevole, non per la tesa volontà che molti gli attribuiscono, ma perch’egli racchiude in sé aspetti opposti: slancio e paura, fermezza e incertezza; è patetico e violento, sentimentale e scettico, ingenuo e astuto. La sua abilità è una sola: conoscere i suoi avversari a uno a uno». Un ritratto del Duce, del fascismo, dell’Italia, in cui gli opposti convivono in un ossimoro permanente e ogni rivoluzione si risolve in tragica burla.

Buttafuoco sostiene che Longanesi «facendo il fascismo – e tanto contribuì nel farlo – non fu fascista». Il giudizio mi lascia perplesso. Longanesi fu fascista e tra i più convinti, spinto anche da quella «spavalda allegria» (per dirla con Calvino) che caratterizza i ventenni combattenti. Questo è un dato di fatto che non può essere rimosso. Egli fu fascista per parecchi anni, come la maggioranza degli italiani; poi per varie persuasive ragioni cambiò idea. Con lucidità forse lo fece un po’ prima di altri, forzati dal disastro bellico e dai ribaltamenti politici.

La mappa generale degli intellettuali fascisti deve ancora essere completata con dati appropriati e senza pregiudizi. In quest’ottica una lettura attenta del giornalismo di Longanesi è stata effettuata da ottimi studi di Raffaele Liucci (L’Italia borghese di Longanesi, 2002), Ivano Granata (L’«Omnibus» di Leo Longanesi, 2015) e Sabine Verhulst (Vitaliano Brancati, una fantasia diabolica, 2016). In questi saggi i periodici sono esaminati con precisione e valutati nella complessiva proposta culturale e politica; emergono le innovazioni ma anche il sostanziale consenso nei confronti della politica del regime, per cui vengono dubbi sull’esistenza e l’identità della “fronda” interna al fascismo.

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